È dal presidential address di Shelley Fisher Fishkin all’American Studies Association, “Crossroads of Culture: The Transnational Turn in American Studies” (2004), che la svolta transnazionale negli studi di americanistica è stata riconosciuta come un approccio insostituibile per restituire visibilità all’intrinseca dialogicità storica e culturale degli Stati Uniti sia a livello transatlantico (Europa e Africa), sia a quello transpacifico (Asia) ed emisferico (Canada, Messico, Caraibi e America del Sud), oscurata dal paradigma ideologico dell’eccezionalismo americano. Non soltanto, essa stessa è diventata oggetto di riflessione metacritica. Ma la necessità di mettere in discussione il nazionalismo degli studi americani, così come di interrogare i limiti del concetto di nazione e di trovare nuovi strumenti per comprendere fenomeni globali che la lente nazionale finisce per distorcere è emersa ben prima di questo millennio, soprattutto nell’ambito delle ricerche dedicate a comunità la cui storia e metanarrazione identitaria invoca necessariamente una pluralità di spazi nazionali. Ne sono testimonianza l’emergere negli ultimi decenni del Novecento di paradigmi interpretativi fondati su concetti che mettono al centro l’importanza che la categoria di nazione continua ad avere ma nello stesso tempo la problematizzano e deterritorializzano, come diaspora, border, contact zone, creolità. Uno degli studi che maggiormente ha influenzato i ricercatori in direzione di un approccio transnazionale è stato The Black Atlantic di Paul Gilroy, che, per quanto criticato per la focalizzazione sull’esperienza maschile e sulle comunità afroamericana e afrobritannica e la marginalizzazione di esperienze non minoritarie, ha avuto il merito di restituire vitalità critica al concetto di diaspora nera, costruendo un paradigma interpretativo fondato sullo spazio sincretico e deterritorializzato dell’Atlantico nero. Il volume di Gilroy ha aperto una varietà di orizzonti di ricerca e, insieme con i profondi cambiamenti avvenuti nella storiografia della schiavitù negli ultimi decenni, ha dato grande impulso allo studio della memoria della schiavitù da una prospettiva transnazionale e comparativa, che ha messo in luce quanto l’egemonia degli Stati Uniti sull’archivio mnestico dell’esperienza schiavile ne abbia prodotto una rappresentazione semplificata e ideologicamente problematica, che per esempio enfatizza il ruolo dell’abolizionismo bianco riducendo al silenzio l’attivismo di neri liberi e schiavi. Questo saggio vuole dimostrare come l’approccio transnazionale sia cruciale per la comprensione di un fenomeno storico globale come la schiavitù, così come per una memoria della schiavitù che metta in discussione l’egemonia statunitense sulla rappresentazione dell’esperienza schiavile. La geolocalizzazione della schiavitù nel sud degli Stati Uniti – e la sua descrizione come “peculiar institution” – è stata a lungo la base per costruire una narrazione del passato che assolveva il Nord da possibili complicità e rendeva la cultura schiavile un fenomeno locale estraneo alla democrazia statunitense, fondamentalmente arcaico e in contraddizione con la vocazione del paese al progresso e alla difesa dei diritti universali degli esseri umani. Attraverso alcuni esempi specifici, come il documentario Traces of the Trade di Katrina Browne, o la nuova visibilità della Rivoluzione di Haiti nella discussione storiografica, il saggio analizza la produttività dell’approccio transnazionale per la decostruzione di tale narrazione assolutoria e salvifica del passato nazionale.

Storia e memoria transnazionale della schiavitù: il caso degli Stati Uniti

Anna Scacchi
2024

Abstract

È dal presidential address di Shelley Fisher Fishkin all’American Studies Association, “Crossroads of Culture: The Transnational Turn in American Studies” (2004), che la svolta transnazionale negli studi di americanistica è stata riconosciuta come un approccio insostituibile per restituire visibilità all’intrinseca dialogicità storica e culturale degli Stati Uniti sia a livello transatlantico (Europa e Africa), sia a quello transpacifico (Asia) ed emisferico (Canada, Messico, Caraibi e America del Sud), oscurata dal paradigma ideologico dell’eccezionalismo americano. Non soltanto, essa stessa è diventata oggetto di riflessione metacritica. Ma la necessità di mettere in discussione il nazionalismo degli studi americani, così come di interrogare i limiti del concetto di nazione e di trovare nuovi strumenti per comprendere fenomeni globali che la lente nazionale finisce per distorcere è emersa ben prima di questo millennio, soprattutto nell’ambito delle ricerche dedicate a comunità la cui storia e metanarrazione identitaria invoca necessariamente una pluralità di spazi nazionali. Ne sono testimonianza l’emergere negli ultimi decenni del Novecento di paradigmi interpretativi fondati su concetti che mettono al centro l’importanza che la categoria di nazione continua ad avere ma nello stesso tempo la problematizzano e deterritorializzano, come diaspora, border, contact zone, creolità. Uno degli studi che maggiormente ha influenzato i ricercatori in direzione di un approccio transnazionale è stato The Black Atlantic di Paul Gilroy, che, per quanto criticato per la focalizzazione sull’esperienza maschile e sulle comunità afroamericana e afrobritannica e la marginalizzazione di esperienze non minoritarie, ha avuto il merito di restituire vitalità critica al concetto di diaspora nera, costruendo un paradigma interpretativo fondato sullo spazio sincretico e deterritorializzato dell’Atlantico nero. Il volume di Gilroy ha aperto una varietà di orizzonti di ricerca e, insieme con i profondi cambiamenti avvenuti nella storiografia della schiavitù negli ultimi decenni, ha dato grande impulso allo studio della memoria della schiavitù da una prospettiva transnazionale e comparativa, che ha messo in luce quanto l’egemonia degli Stati Uniti sull’archivio mnestico dell’esperienza schiavile ne abbia prodotto una rappresentazione semplificata e ideologicamente problematica, che per esempio enfatizza il ruolo dell’abolizionismo bianco riducendo al silenzio l’attivismo di neri liberi e schiavi. Questo saggio vuole dimostrare come l’approccio transnazionale sia cruciale per la comprensione di un fenomeno storico globale come la schiavitù, così come per una memoria della schiavitù che metta in discussione l’egemonia statunitense sulla rappresentazione dell’esperienza schiavile. La geolocalizzazione della schiavitù nel sud degli Stati Uniti – e la sua descrizione come “peculiar institution” – è stata a lungo la base per costruire una narrazione del passato che assolveva il Nord da possibili complicità e rendeva la cultura schiavile un fenomeno locale estraneo alla democrazia statunitense, fondamentalmente arcaico e in contraddizione con la vocazione del paese al progresso e alla difesa dei diritti universali degli esseri umani. Attraverso alcuni esempi specifici, come il documentario Traces of the Trade di Katrina Browne, o la nuova visibilità della Rivoluzione di Haiti nella discussione storiografica, il saggio analizza la produttività dell’approccio transnazionale per la decostruzione di tale narrazione assolutoria e salvifica del passato nazionale.
2024
Studi transnazionali. Casi e strumenti interdisciplinari
File in questo prodotto:
File Dimensione Formato  
Scacchi memoria transnazionale della schiavitù.pdf

Accesso riservato

Tipologia: Published (Publisher's Version of Record)
Licenza: Accesso privato - non pubblico
Dimensione 166.97 kB
Formato Adobe PDF
166.97 kB Adobe PDF Visualizza/Apri   Richiedi una copia
Pubblicazioni consigliate

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11577/3546727
Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
  • OpenAlex ND
social impact