Le motivazioni per cui ci si avvicina allo studio di una lingua possono essere molteplici ed eterogenee. In linea di massima, tuttavia, possono essere ricondotte a due tipologie: intrinseche (o personali) o estrinseche (o istituzionali). Nel primo caso, le possibilità di motivazioni sono potenzialmente infinite (affettive, migratorie, strumentali, culturali, ecc.). Nel secondo caso, spesso sono il frutto di imposizioni per così ‘contestuali’ derivanti dai sistemi economici (si pensi, banalmente, ai milioni di persone che sono ‘costrette’ ad imparare l’inglese, loro malgrado, per interagire in situazioni internazionali commerciali, politiche scientifiche o anche solo turistiche) o scolastici che predeterminano, sulla base di scelte di politica linguistica top-down, quali lingue vadano insegnate, in che modo, per quanto tempo, ecc. e quali invece no. Talvolta queste scelte scaturiscono da fondate considerazioni economiche, altre volte invece sono solo il risultato di una tradizione consolidata nel tempo. Quando le opzioni di scelta tra più lingue siano poste allo stesso livello, in assenza di motivazioni diverse, gli apprendenti si orientano generalmente verso la lingua ritenuta, a ragione o a torto, più semplice. Più di rado vengono invece valutate le reali opportunità offerte dalla conoscenza di una lingua. Senza dubbio, in Italia, il tedesco non rientra in nessuna di queste tipologie che abbiamo definito ‘estrinseche’. Infatti, per quanto il tedesco sia la lingua con più parlanti nativi in Europa (circa 100 milioni), sebbene da lungo tempo la Germania sia il primo partner commerciale italiano e i turisti germanofoni (tra Germania, Austria e Svizzera) costituiscano, nel loro insieme, quasi il 40% dei visitatori stranieri in Italia (dati www.goethe.de/italia), l’insegnamento del tedesco nelle scuole italiane (con alcune eccezioni regionali) si colloca solo al quarto posto dopo inglese, francese e/o spagnolo. Prevale dunque ancora la nomea di lingua difficile, dura, ostica e forse addirittura ‘ostile’, a fronte di ben più concrete opportunità che la sua conoscenza offre sul piano lavorativo e di crescita culturale, senza nulla voler togliere alle altre lingue presenti nel panorama educativo italiano. Il tedesco, in Italia, è quindi di solito studiato come L3, se non addirittura L4, e per questo presenta specificità ben diverse da quelle di una L2. Prima di analizzarle, tuttavia, riteniamo possa essere utile soffermarsi sul significato profondo di queste etichette e di altre simili ormai in uso nella glottodidattica italiana e su ciò che ciascuna di esse comporta in termini sia teorici sia operativi.

Il tedesco Ln e le altre lingue dopo l’inglese: alcune considerazioni

Matteo Santipolo
2023

Abstract

Le motivazioni per cui ci si avvicina allo studio di una lingua possono essere molteplici ed eterogenee. In linea di massima, tuttavia, possono essere ricondotte a due tipologie: intrinseche (o personali) o estrinseche (o istituzionali). Nel primo caso, le possibilità di motivazioni sono potenzialmente infinite (affettive, migratorie, strumentali, culturali, ecc.). Nel secondo caso, spesso sono il frutto di imposizioni per così ‘contestuali’ derivanti dai sistemi economici (si pensi, banalmente, ai milioni di persone che sono ‘costrette’ ad imparare l’inglese, loro malgrado, per interagire in situazioni internazionali commerciali, politiche scientifiche o anche solo turistiche) o scolastici che predeterminano, sulla base di scelte di politica linguistica top-down, quali lingue vadano insegnate, in che modo, per quanto tempo, ecc. e quali invece no. Talvolta queste scelte scaturiscono da fondate considerazioni economiche, altre volte invece sono solo il risultato di una tradizione consolidata nel tempo. Quando le opzioni di scelta tra più lingue siano poste allo stesso livello, in assenza di motivazioni diverse, gli apprendenti si orientano generalmente verso la lingua ritenuta, a ragione o a torto, più semplice. Più di rado vengono invece valutate le reali opportunità offerte dalla conoscenza di una lingua. Senza dubbio, in Italia, il tedesco non rientra in nessuna di queste tipologie che abbiamo definito ‘estrinseche’. Infatti, per quanto il tedesco sia la lingua con più parlanti nativi in Europa (circa 100 milioni), sebbene da lungo tempo la Germania sia il primo partner commerciale italiano e i turisti germanofoni (tra Germania, Austria e Svizzera) costituiscano, nel loro insieme, quasi il 40% dei visitatori stranieri in Italia (dati www.goethe.de/italia), l’insegnamento del tedesco nelle scuole italiane (con alcune eccezioni regionali) si colloca solo al quarto posto dopo inglese, francese e/o spagnolo. Prevale dunque ancora la nomea di lingua difficile, dura, ostica e forse addirittura ‘ostile’, a fronte di ben più concrete opportunità che la sua conoscenza offre sul piano lavorativo e di crescita culturale, senza nulla voler togliere alle altre lingue presenti nel panorama educativo italiano. Il tedesco, in Italia, è quindi di solito studiato come L3, se non addirittura L4, e per questo presenta specificità ben diverse da quelle di una L2. Prima di analizzarle, tuttavia, riteniamo possa essere utile soffermarsi sul significato profondo di queste etichette e di altre simili ormai in uso nella glottodidattica italiana e su ciò che ciascuna di esse comporta in termini sia teorici sia operativi.
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