I campi profughi sono prevalentemente etichettati come spazi di eccezione, di espropriazione e di attesa (Agamben, 1998; Agier, 2011), eppure gli studi critici hanno chiesto di discostarsi dai discorsi coloniali che mostrano i rifugiati unicamente come destinatari di aiuti esterni (Al-Hardan, 2014; Zein-Elabdin & Charusheela, 2004). La letteratura recente ha fatto riferimento ai campi profughi come spazi urbani (Doraï, 2010; Jansen, 2018), offrendo, tuttavia, poche riflessioni teoriche su come un campo profughi operi come spazio urbano quando non ha accesso alle alle strutture pubbliche di sostegno di sostentamento (spazio, infrastrutture, mercato del lavoro o servizi pubblici) che normalmente caratterizzano una zona urbana. Questa tesi rivisita i campi profughi di lunga durata come costellazioni di intrecci sociali attraverso la definizione di luogo di Massey (1991). Partire dallo spazio come luogo permette di osservare i campi profughi come reti di cura (Latour, 2007) e degli assemblaggi (Deleuze & Parnet, 1987) come strumenti analitici che ci permettono di comprendere l'agency dei rifugiati nell´ordinare in strutture di senso entità eterogenee all'interno e all'esterno del campo orientate al raggiungimento di obiettivi comunitari. Questi approcci comportano un esame approfondito di relazionalità e world-making nella comunità di rifugiati; pertanto, questa tesi presta un'attenzione specifica alle cosmologie e alle ontologie politiche nei campi profughi. La ricerca si basa su letteratura geografica e del post-sviluppo, in quanto promuove movimenti di base localizzati e pluralistici (Cerdán, 2013; Kothari et al., 2019; Matthews, 2004; Mercier, 2019; Schöneberg et al., 2022; Ziai, 2017), oltre a metodi e reti alternative per la costruzione del benessere locale, privilegiando obiettivi sociali che vanno al di là della definizione di sviluppo normalmente promossa da studiosi mainstream e codificata negli obiettivi di sviluppo sostenibile. In particolare, la tesi esplora le modalità attraverso cui una popolazione di rifugiati in crescita demografica plasma gli spazi per produrre luoghi di residenza, di sussistenza, e di senso identitario, all´interno di uno spazio limitato a 0,2 km2. L’osservazione si concentra sui campi profughi palestinesi permanenti e temporanei di Beirut, in Libano, sulle reti e assemblaggi umani e più-che-umani tra elementi specifici del campo (memoria, invisibilità, apolidia, spazio congestionato, terra, cibo, e altri) come categorie ontologiche attraverso le quali i rifugiati danno senso alla propria posizionalità esistenziale e politica, e negoziano gli spazi quotidiani per la casa, la sicurezza alimentare, l'istruzione equa, l'accesso alla salute e alla cultura. La ricerca si basa su una metodologia qualitativa basata su auto-etnografie (in quanto la scrivente è parte della comunità di rifugiati del campo osservato), etnografie, interviste in profondità e analisi spaziale. I risultati mostrano come le comunità di rifugiati osservati siano in continua negoziazione dello spazio tramite espansione verticale, allo stesso tempo cercando di riprodurre le memorie ancestrali della Palestina, visibili anche nelle strettissime vie interne al campo. In assenza di servizi pubblici nel campo, la comunità auto-organizza servizi per l´istruzione, l´accesso al cibo e all´assistenza sanitaria, attraverso progetti comunitari sostenuti da sisterhood e crowdfunding. La tesi mostra come la cooperazione di base ha permesso di costruire beni comuni, ridistribuire le risorse e persino curare altri rifugiati della città durante la pandemia e, allo stesso tempo, decolonizzando le conoscenze sulla Palestina,. Lo studio conclude che gli assemblaggi e le solidarietà negli spazi per rifugiati prolungati permettono ai rifugiati di trasformare il campo da spazio confinato a luogo, di espandersi oltre la scala del confinamento spaziale, e di rivendicare spazio nella città. Malgrado le limitazioni legali e socio-economiche dello spazio del campo, il campo si espande geograficamente: si espande fisicamente (espansione verticale degli edifici), socialmente (comunicazione con il mondo esterno attraverso la produzione di materiale audiovisivo) e culturalmente (produzione di programmi educativi decoloniali) e tramite il cibo e la cura sanitaria, anche verso migranti non-palestinesi presenti a Beirut. In conclusione, i campi profughi non sono semplicemente spazi confinati e fissi, con una mobilità controllata e regolata da uno sviluppo assistito dagli stati occidentali - che, tra l´altro, hanno progressivamente ridotto il suo impegno. Mobilità e modalità alternative di (post)sviluppo esistono nelle zone di attesa e sono guidate dai rifugiati stessi. Pertanto, le politiche che si rivolgono alle comunità di rifugiati devono riconoscere la varietà di agencies e relazioni spaziali che si trovano all'interno delle comunità di rifugiati e che modellano lo spazio che i rifugiati occupano nella città.
Post-Development in Permanently Temporary Urban Spaces: Networks of Care in Lebanon’s Palestinian Refugee Camps
Yafa El Masri
2023
Abstract
I campi profughi sono prevalentemente etichettati come spazi di eccezione, di espropriazione e di attesa (Agamben, 1998; Agier, 2011), eppure gli studi critici hanno chiesto di discostarsi dai discorsi coloniali che mostrano i rifugiati unicamente come destinatari di aiuti esterni (Al-Hardan, 2014; Zein-Elabdin & Charusheela, 2004). La letteratura recente ha fatto riferimento ai campi profughi come spazi urbani (Doraï, 2010; Jansen, 2018), offrendo, tuttavia, poche riflessioni teoriche su come un campo profughi operi come spazio urbano quando non ha accesso alle alle strutture pubbliche di sostegno di sostentamento (spazio, infrastrutture, mercato del lavoro o servizi pubblici) che normalmente caratterizzano una zona urbana. Questa tesi rivisita i campi profughi di lunga durata come costellazioni di intrecci sociali attraverso la definizione di luogo di Massey (1991). Partire dallo spazio come luogo permette di osservare i campi profughi come reti di cura (Latour, 2007) e degli assemblaggi (Deleuze & Parnet, 1987) come strumenti analitici che ci permettono di comprendere l'agency dei rifugiati nell´ordinare in strutture di senso entità eterogenee all'interno e all'esterno del campo orientate al raggiungimento di obiettivi comunitari. Questi approcci comportano un esame approfondito di relazionalità e world-making nella comunità di rifugiati; pertanto, questa tesi presta un'attenzione specifica alle cosmologie e alle ontologie politiche nei campi profughi. La ricerca si basa su letteratura geografica e del post-sviluppo, in quanto promuove movimenti di base localizzati e pluralistici (Cerdán, 2013; Kothari et al., 2019; Matthews, 2004; Mercier, 2019; Schöneberg et al., 2022; Ziai, 2017), oltre a metodi e reti alternative per la costruzione del benessere locale, privilegiando obiettivi sociali che vanno al di là della definizione di sviluppo normalmente promossa da studiosi mainstream e codificata negli obiettivi di sviluppo sostenibile. In particolare, la tesi esplora le modalità attraverso cui una popolazione di rifugiati in crescita demografica plasma gli spazi per produrre luoghi di residenza, di sussistenza, e di senso identitario, all´interno di uno spazio limitato a 0,2 km2. L’osservazione si concentra sui campi profughi palestinesi permanenti e temporanei di Beirut, in Libano, sulle reti e assemblaggi umani e più-che-umani tra elementi specifici del campo (memoria, invisibilità, apolidia, spazio congestionato, terra, cibo, e altri) come categorie ontologiche attraverso le quali i rifugiati danno senso alla propria posizionalità esistenziale e politica, e negoziano gli spazi quotidiani per la casa, la sicurezza alimentare, l'istruzione equa, l'accesso alla salute e alla cultura. La ricerca si basa su una metodologia qualitativa basata su auto-etnografie (in quanto la scrivente è parte della comunità di rifugiati del campo osservato), etnografie, interviste in profondità e analisi spaziale. I risultati mostrano come le comunità di rifugiati osservati siano in continua negoziazione dello spazio tramite espansione verticale, allo stesso tempo cercando di riprodurre le memorie ancestrali della Palestina, visibili anche nelle strettissime vie interne al campo. In assenza di servizi pubblici nel campo, la comunità auto-organizza servizi per l´istruzione, l´accesso al cibo e all´assistenza sanitaria, attraverso progetti comunitari sostenuti da sisterhood e crowdfunding. La tesi mostra come la cooperazione di base ha permesso di costruire beni comuni, ridistribuire le risorse e persino curare altri rifugiati della città durante la pandemia e, allo stesso tempo, decolonizzando le conoscenze sulla Palestina,. Lo studio conclude che gli assemblaggi e le solidarietà negli spazi per rifugiati prolungati permettono ai rifugiati di trasformare il campo da spazio confinato a luogo, di espandersi oltre la scala del confinamento spaziale, e di rivendicare spazio nella città. Malgrado le limitazioni legali e socio-economiche dello spazio del campo, il campo si espande geograficamente: si espande fisicamente (espansione verticale degli edifici), socialmente (comunicazione con il mondo esterno attraverso la produzione di materiale audiovisivo) e culturalmente (produzione di programmi educativi decoloniali) e tramite il cibo e la cura sanitaria, anche verso migranti non-palestinesi presenti a Beirut. In conclusione, i campi profughi non sono semplicemente spazi confinati e fissi, con una mobilità controllata e regolata da uno sviluppo assistito dagli stati occidentali - che, tra l´altro, hanno progressivamente ridotto il suo impegno. Mobilità e modalità alternative di (post)sviluppo esistono nelle zone di attesa e sono guidate dai rifugiati stessi. Pertanto, le politiche che si rivolgono alle comunità di rifugiati devono riconoscere la varietà di agencies e relazioni spaziali che si trovano all'interno delle comunità di rifugiati e che modellano lo spazio che i rifugiati occupano nella città.Pubblicazioni consigliate
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