L’intercultura di strada, mi pare di poter dire, ne ha fatta parecchia da quando era una parola inusuale e un concetto che sapeva di novità. Sono passati per lo meno trent’anni – non sono pochi – e in questo tempo questa espressione è divenuta consueta, “normale”. La troviamo tra i titoli degli insegnamenti universitari, nella normativa riguardante la scuola, nelle carte dei servizi di una gran numero di servizi educativi territoriali, nei progetti di comunità e di inclusione sociale. Eppure, questa espansione un poco confonde, come se la sua diluizione ne facesse perdere un po’ il sapore, il carattere. E c’è pure un po’ il disagio per avere sempre la medesima parola (“intercultura”) ad indicare qualcosa che – sia a livello teoretico che pratico – in questi anni è cambiato al punto da apparire davvero molto diverso. Ma è proprio così? Questa diffusione (dispersione?) ne confonde l’identità? Cosa rimane a significare oggi l’intercultura? L'ipotesi che il breve contributo intende sviluppare è che l’intercultura abiti lo spazio liminale dell’incontro tra alterità per guidarne teleologicamente il corso verso le finalità dell’incontro rispettoso e reciprocamente arricchente. Si tratta, allora, parafrasando Augé (2007) di saper pensare all’altro per non costruire lo straniero, di saper creare frontiere per valicare i confini.
L’intercultura è di frontiera. Stare sullo spazio liminale dell’incontro
Luca Agostinetto
2021
Abstract
L’intercultura di strada, mi pare di poter dire, ne ha fatta parecchia da quando era una parola inusuale e un concetto che sapeva di novità. Sono passati per lo meno trent’anni – non sono pochi – e in questo tempo questa espressione è divenuta consueta, “normale”. La troviamo tra i titoli degli insegnamenti universitari, nella normativa riguardante la scuola, nelle carte dei servizi di una gran numero di servizi educativi territoriali, nei progetti di comunità e di inclusione sociale. Eppure, questa espansione un poco confonde, come se la sua diluizione ne facesse perdere un po’ il sapore, il carattere. E c’è pure un po’ il disagio per avere sempre la medesima parola (“intercultura”) ad indicare qualcosa che – sia a livello teoretico che pratico – in questi anni è cambiato al punto da apparire davvero molto diverso. Ma è proprio così? Questa diffusione (dispersione?) ne confonde l’identità? Cosa rimane a significare oggi l’intercultura? L'ipotesi che il breve contributo intende sviluppare è che l’intercultura abiti lo spazio liminale dell’incontro tra alterità per guidarne teleologicamente il corso verso le finalità dell’incontro rispettoso e reciprocamente arricchente. Si tratta, allora, parafrasando Augé (2007) di saper pensare all’altro per non costruire lo straniero, di saper creare frontiere per valicare i confini.File | Dimensione | Formato | |
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