This work is focused on the study of the fictional city in Hispanic-American contemporary literature and its relation with the cultural identiy of Latin America. I first analyse the so-called boom of Hispanic-American novel: in these years it really seemed that masters like Gabriel García Márquez, Juan Rulfo or Juan Carlos Onetti converged in the fictional city as they all founded their own space in novel such as Cien años de Soledad, Pedro Páramo or La vida breve. I study the way they tried the reflect on Latin-American identity in these spaces. The central core of my work is focused on the study of the contemporary evolution of fictional city, starting with the McOndo generation, a group of young Hispanic-American writers who criticized the reiteration of the boom paradigm. So I analyse some recent evolutions of the fictional city in the novel of writers like Edmundo Paz Soldán, Héctor Abad Faciolince, Rodrigo Fresán and Sergio Gómez. This work ends with the study of Roberto Bolaño’s Santa Teresa, a city where Latin-American is conceived programmatically as a border-space. A city where Latin-American face the new nature of its identity.
Il mio lavoro nasce dalla constatazione che, a partire da metà del secolo scorso, v’è stata una sorta d’esplosione del fenomeno delle città immaginarie nei romanzi del cosiddetto boom latinoamericano. Ho cercato, quindi, di dar voce a questa non casuale concomitanza nel “luogo letterario” di alcune delle voci più singolari del panorama letterario del continente, analizzando inizialmente celebri spazi come Macondo di Gabriel García Márquez, Comala di Juan Rulfo, o Santa María di Juan Carlos Onetti, definendoli, per comodità, “spazi letterari di prima generazione”. Successivamente, ho denominato “di seconda generazione” le città sorte in epoca molto più recente, le quali, a loro modo, instaurano un dialogo, problematico ed irrisolto, con le illustri predecessore. Nel primo grande capitolo della mia tesi faccio, dunque, il punto della situazione per quanto riguarda la fase della letteratura latinoamericana in cui l’espediente della fondazione di città immaginarie è stato più pervasivo (ovvero il boom) e si è ricollegato al topos della ricerca dell’identità in senso postcoloniale. Mi sono occupato di cittadelle come Comala, Macondo, Santa María, “la zona” e Rumi e del ruolo che hanno avuto nella ricognizione retrospettiva del vissuto problematico del continente latinoamericano nonché della progettualità utopica più o meno irrealizzata di questi spazi. Nella parte centrale del mio studio mi occupo di un corpus di testi pubblicati a partire dalla seconda metà degli anni novanta fino ai primi anni zero. La ripresa del discorso sullo spazio immaginario su nuove basi sembra partire proprio dalla cosiddetta “generazione McOndo” e pare nascere come un tentativo di decostruzione parodica, se non addirittura di attacco polemico, a quelle ipostasi dell’America Latina, ovvero le cittadelle di prima generazione, intese come emblema di un localismo divenuto stereotipo. Nell’antologia McOndo e soprattutto nel suo prologo, viene sbandierata l’inconsistenza di un attaccamento quasi feticista ai canoni del realismo magico e viene proclamata la nuova visione dell’America Latina come succursale trionfante della globalizzazione. Si lavora quindi con l’identità continentale nel tentativo di sprovincializzarla ed abbracciare il globale a spese del locale. Tuttavia, nell’antologia ho potuto verificare che la costruzione sorridente del brand dell’America Latina globalizzata produce frizioni con i dati provenienti dai racconti, dove questa modernità della megalopoli latina appare ben più problematica di quanto enunciato nel prologo. A ben pensarci, quindi, McOndo risulta essere più semplicemente una città di carta, un non-luogo dove la globalizzazione più che affermarsi viene simulata. La dialettica fra McOndo e Macondo, è stata quindi centrale nello studio degli spazi letterari di seconda generazione, i cui fondatori sono in gran parte scrittori che partecipano all’antologia ma che, successivamente, adottano un posizione differente. La gran parte di queste nuove città letterarie, al di la dell’apparenza, manterranno una posizione ambigua rispetto alla diatriba McOndo-Macondo, rimanendo sospese a metà strada, in una specie di limbo fra l’anelo di globalità e la nostalgia del locale, fra i fantasmi del passato ed una città letteraria che non diverrà mai letteratura. Il primo spazio esplorato è Vertiente Baquedano, la cittadella immaginaria fondata dal cileno Sergio Gómez. Si tratta di una piccola cittadina ai piedi delle Ande cilene dove sovente i personaggi fuggono dalla grande metropoli latinoamericana, senza, tuttavia, trovare conforto in questa comunità piuttosto chiusa, bigotta e retrograda che sembra occultare un passato oscuro. Il globale ed il locale coesistono e sono ugualmente insopportabili in un continente sospeso fra l’eredità di un passato pre-moderno (rurale, regionale, tellurico) e la sua ambizione di modernità, verticalità, virtualità. Il boliviano Edmundo Paz Soldán propone, invece, la sua versione della città immaginaria latinoamericana fondando Río Fugitivo. Da un lato, questo spazio sembra confermare l’assioma mcondista della nuova metropoli latinoamericana come città del futuro, della virtualità, della massiccia contaminazione con gli apporti provenienti dal nord. D’altro canto, i continui riferimenti al boom, letti in ottica di una parodia postmoderna, ci aiutano a ipotizzare che tutto questo affannoso decostruttivismo verso i prodotti di quest’epoca letteraria celi in realtà una profonda nostalgia verso i suoi celebri spazi letterari. Paz Soldán dimostra tutta la problematicità di un rifiuto aprioristico delle immagini identitarie provenienti dal boom creando un luogo invivibile ed insoddisfacente, dove giusto quando inizia a indebolirsi l’ideale mcondista, riacquista forza il ricordo di Macondo. Passo poi ad esaminare Canciones Tristes, la schizofrenica, instabile ed errante cittadella immaginaria fondata dall’argentino Rodrigo Fresán. Si tratta di un luogo volatile, una piccola America Latina portatile, senza fissa dimora nel tempo e nello spazio, attraverso la quale lo scrittore prova a recuperare un traumatico passato locale, reinventandolo o rivisitandolo grazie alla contaminazione della cultura pop e dei deliri della città postmoderna. Infine, l’ultimo spazio limbo che analizzo è Angosta la città immaginaria fondata da Héctor Abad Faciolince. Questa violenta, pericolosa e corrotta metropoli colombiana è uno spazio che ha perso la possibilità di significare il passato e che, quindi, a partire dall’osservazione realistica della Colombia attuale, si converte in uno specie di distopia futurista, senza però smettere di riferirsi nostalgicamente alle cittadelle di prima generazione. Angosta oscilla, quindi, fra il ricordo melanconico del boom e la necessità di rappresentare -esacerbandola- la realtà attuale, ovvero fra la reminiscenza di Macondo e la volontà di fondare un McOndo-noir dove rimarcare e denunciare i vizi, le contraddizioni e le peggiori tendenze sociali della contemporaneità latinoamericana. In fondo, si tratta di luoghi deputati alla testualizzazione dello spazio immaginario di prima generazione, alla decostruzione postmoderna, al ripiegamento autoriflessivo della funzione sociologica acquisita dalle cittadelle come Comala, Macondo o Santa María. Rappresentano, quindi, un limbo in cui il locale ed il globale entrano in una dinamica sterile che non può mai soddisfare. Roberto Bolaño grazie alla sua Santa Teresa ricopre un ruolo simbolico più avanzato per quanto riguarda la gestione del fenomeno delle città immaginarie, andando oltre il ripiegamento postmodernista della testualizzazione e recuperando tutta la serietà, ovvero tutto il peso culturale, che tale espediente letterario aveva all’epoca di Macondo. L’America Latina per Bolaño è uno spazio programmaticamente di frontiera. Santa Teresa è una metropoli spaventosa, decadente ed estremamente violenta, le cui problematiche rimandano all’irrisolta interazione fra nord e sud del mondo. Una città che trova un parziale contrappunto nella realtà in Ciudad Juárez, con la quale condivide il triste fenomeno dei femminicidi. Questa bordertown trova la sua massima espressione nelle cinque sezioni del romanzo 2666, convertendosi nella patria de “lo fronterizo”, declinato in cinque accezioni differenti: è la città che custodisce il segreto di uno scrittore enigmaticamente universale che riunisce i suoi critici dandogli appuntamento in questo luogo dove la letteratura si espone alle intemperie e si ritrova faccia a faccia con la natura disseminata del segno identitario contemporaneo; è il luogo che condensa il valore simbolico della diaspora contemporanea, il paese fantasma degli esuli, una vera patria dell’esilio; è lo scenario dove l’identità si libera dai suoi archetipi culturali, il cimitero dimenticato dove si problematizzano tutte le barriere settoriali e dove si smantellano e seppelliscono gli stereotipi delle nostre culture; è lo spazio dove la frontiera fra realtà e finzione sembra assottigliarsi e dove si accetta in modo privo di straniamento la mancanza di verosimiglianza, il sovrannaturale della violenza erta a sistema; è la terra dell’impossibilità di risalire ai colpevoli della storia recente latinoamericana ed universale. Santa Teresa è uno spazio dove si torna a parlare della specificità del continente, relazionandola con il suo ruolo esemplare e paradigmatico che svolge nel contesto del disastro geopolitico universale. Qui si condensano tutti gli irrisolti sociopolitici del primo mondo e per questo in 2666 è necessario che tutti i personaggi convergano a questa città per scontrarsi con la natura stessa della propria identità. La proposta di Bolaño è di superare l’indecisione delle città di seconda generazione per creare uno spazio dove si rappresenti un’America Latina intesa come metastasi avanzata del cancro occidentale. Andando oltre McOndo, Santa Teresa recupera la gran vocazione culturale ed etica delle cittadelle di prima generazione (summa e progetto): questa nuova versione della cartografia immaginaria rappresenta, quindi, una vera e propria terza via che si smarca dai recenti ed incerti tentativi di riscrivere gli spazi identitari del boom nell’era della globalità e rivela la natura seria e paradigmatica della necessità di ricreare attraverso l’immaginazione un mito sull’identità latinoamericana.
De soledades y fronteras: la ciudad imaginaria de la identidad en la literatura hispanoamericana contemporánea / Bao, Long Marco. - (2017).
De soledades y fronteras: la ciudad imaginaria de la identidad en la literatura hispanoamericana contemporánea
Bao, Long Marco
2017
Abstract
Il mio lavoro nasce dalla constatazione che, a partire da metà del secolo scorso, v’è stata una sorta d’esplosione del fenomeno delle città immaginarie nei romanzi del cosiddetto boom latinoamericano. Ho cercato, quindi, di dar voce a questa non casuale concomitanza nel “luogo letterario” di alcune delle voci più singolari del panorama letterario del continente, analizzando inizialmente celebri spazi come Macondo di Gabriel García Márquez, Comala di Juan Rulfo, o Santa María di Juan Carlos Onetti, definendoli, per comodità, “spazi letterari di prima generazione”. Successivamente, ho denominato “di seconda generazione” le città sorte in epoca molto più recente, le quali, a loro modo, instaurano un dialogo, problematico ed irrisolto, con le illustri predecessore. Nel primo grande capitolo della mia tesi faccio, dunque, il punto della situazione per quanto riguarda la fase della letteratura latinoamericana in cui l’espediente della fondazione di città immaginarie è stato più pervasivo (ovvero il boom) e si è ricollegato al topos della ricerca dell’identità in senso postcoloniale. Mi sono occupato di cittadelle come Comala, Macondo, Santa María, “la zona” e Rumi e del ruolo che hanno avuto nella ricognizione retrospettiva del vissuto problematico del continente latinoamericano nonché della progettualità utopica più o meno irrealizzata di questi spazi. Nella parte centrale del mio studio mi occupo di un corpus di testi pubblicati a partire dalla seconda metà degli anni novanta fino ai primi anni zero. La ripresa del discorso sullo spazio immaginario su nuove basi sembra partire proprio dalla cosiddetta “generazione McOndo” e pare nascere come un tentativo di decostruzione parodica, se non addirittura di attacco polemico, a quelle ipostasi dell’America Latina, ovvero le cittadelle di prima generazione, intese come emblema di un localismo divenuto stereotipo. Nell’antologia McOndo e soprattutto nel suo prologo, viene sbandierata l’inconsistenza di un attaccamento quasi feticista ai canoni del realismo magico e viene proclamata la nuova visione dell’America Latina come succursale trionfante della globalizzazione. Si lavora quindi con l’identità continentale nel tentativo di sprovincializzarla ed abbracciare il globale a spese del locale. Tuttavia, nell’antologia ho potuto verificare che la costruzione sorridente del brand dell’America Latina globalizzata produce frizioni con i dati provenienti dai racconti, dove questa modernità della megalopoli latina appare ben più problematica di quanto enunciato nel prologo. A ben pensarci, quindi, McOndo risulta essere più semplicemente una città di carta, un non-luogo dove la globalizzazione più che affermarsi viene simulata. La dialettica fra McOndo e Macondo, è stata quindi centrale nello studio degli spazi letterari di seconda generazione, i cui fondatori sono in gran parte scrittori che partecipano all’antologia ma che, successivamente, adottano un posizione differente. La gran parte di queste nuove città letterarie, al di la dell’apparenza, manterranno una posizione ambigua rispetto alla diatriba McOndo-Macondo, rimanendo sospese a metà strada, in una specie di limbo fra l’anelo di globalità e la nostalgia del locale, fra i fantasmi del passato ed una città letteraria che non diverrà mai letteratura. Il primo spazio esplorato è Vertiente Baquedano, la cittadella immaginaria fondata dal cileno Sergio Gómez. Si tratta di una piccola cittadina ai piedi delle Ande cilene dove sovente i personaggi fuggono dalla grande metropoli latinoamericana, senza, tuttavia, trovare conforto in questa comunità piuttosto chiusa, bigotta e retrograda che sembra occultare un passato oscuro. Il globale ed il locale coesistono e sono ugualmente insopportabili in un continente sospeso fra l’eredità di un passato pre-moderno (rurale, regionale, tellurico) e la sua ambizione di modernità, verticalità, virtualità. Il boliviano Edmundo Paz Soldán propone, invece, la sua versione della città immaginaria latinoamericana fondando Río Fugitivo. Da un lato, questo spazio sembra confermare l’assioma mcondista della nuova metropoli latinoamericana come città del futuro, della virtualità, della massiccia contaminazione con gli apporti provenienti dal nord. D’altro canto, i continui riferimenti al boom, letti in ottica di una parodia postmoderna, ci aiutano a ipotizzare che tutto questo affannoso decostruttivismo verso i prodotti di quest’epoca letteraria celi in realtà una profonda nostalgia verso i suoi celebri spazi letterari. Paz Soldán dimostra tutta la problematicità di un rifiuto aprioristico delle immagini identitarie provenienti dal boom creando un luogo invivibile ed insoddisfacente, dove giusto quando inizia a indebolirsi l’ideale mcondista, riacquista forza il ricordo di Macondo. Passo poi ad esaminare Canciones Tristes, la schizofrenica, instabile ed errante cittadella immaginaria fondata dall’argentino Rodrigo Fresán. Si tratta di un luogo volatile, una piccola America Latina portatile, senza fissa dimora nel tempo e nello spazio, attraverso la quale lo scrittore prova a recuperare un traumatico passato locale, reinventandolo o rivisitandolo grazie alla contaminazione della cultura pop e dei deliri della città postmoderna. Infine, l’ultimo spazio limbo che analizzo è Angosta la città immaginaria fondata da Héctor Abad Faciolince. Questa violenta, pericolosa e corrotta metropoli colombiana è uno spazio che ha perso la possibilità di significare il passato e che, quindi, a partire dall’osservazione realistica della Colombia attuale, si converte in uno specie di distopia futurista, senza però smettere di riferirsi nostalgicamente alle cittadelle di prima generazione. Angosta oscilla, quindi, fra il ricordo melanconico del boom e la necessità di rappresentare -esacerbandola- la realtà attuale, ovvero fra la reminiscenza di Macondo e la volontà di fondare un McOndo-noir dove rimarcare e denunciare i vizi, le contraddizioni e le peggiori tendenze sociali della contemporaneità latinoamericana. In fondo, si tratta di luoghi deputati alla testualizzazione dello spazio immaginario di prima generazione, alla decostruzione postmoderna, al ripiegamento autoriflessivo della funzione sociologica acquisita dalle cittadelle come Comala, Macondo o Santa María. Rappresentano, quindi, un limbo in cui il locale ed il globale entrano in una dinamica sterile che non può mai soddisfare. Roberto Bolaño grazie alla sua Santa Teresa ricopre un ruolo simbolico più avanzato per quanto riguarda la gestione del fenomeno delle città immaginarie, andando oltre il ripiegamento postmodernista della testualizzazione e recuperando tutta la serietà, ovvero tutto il peso culturale, che tale espediente letterario aveva all’epoca di Macondo. L’America Latina per Bolaño è uno spazio programmaticamente di frontiera. Santa Teresa è una metropoli spaventosa, decadente ed estremamente violenta, le cui problematiche rimandano all’irrisolta interazione fra nord e sud del mondo. Una città che trova un parziale contrappunto nella realtà in Ciudad Juárez, con la quale condivide il triste fenomeno dei femminicidi. Questa bordertown trova la sua massima espressione nelle cinque sezioni del romanzo 2666, convertendosi nella patria de “lo fronterizo”, declinato in cinque accezioni differenti: è la città che custodisce il segreto di uno scrittore enigmaticamente universale che riunisce i suoi critici dandogli appuntamento in questo luogo dove la letteratura si espone alle intemperie e si ritrova faccia a faccia con la natura disseminata del segno identitario contemporaneo; è il luogo che condensa il valore simbolico della diaspora contemporanea, il paese fantasma degli esuli, una vera patria dell’esilio; è lo scenario dove l’identità si libera dai suoi archetipi culturali, il cimitero dimenticato dove si problematizzano tutte le barriere settoriali e dove si smantellano e seppelliscono gli stereotipi delle nostre culture; è lo spazio dove la frontiera fra realtà e finzione sembra assottigliarsi e dove si accetta in modo privo di straniamento la mancanza di verosimiglianza, il sovrannaturale della violenza erta a sistema; è la terra dell’impossibilità di risalire ai colpevoli della storia recente latinoamericana ed universale. Santa Teresa è uno spazio dove si torna a parlare della specificità del continente, relazionandola con il suo ruolo esemplare e paradigmatico che svolge nel contesto del disastro geopolitico universale. Qui si condensano tutti gli irrisolti sociopolitici del primo mondo e per questo in 2666 è necessario che tutti i personaggi convergano a questa città per scontrarsi con la natura stessa della propria identità. La proposta di Bolaño è di superare l’indecisione delle città di seconda generazione per creare uno spazio dove si rappresenti un’America Latina intesa come metastasi avanzata del cancro occidentale. Andando oltre McOndo, Santa Teresa recupera la gran vocazione culturale ed etica delle cittadelle di prima generazione (summa e progetto): questa nuova versione della cartografia immaginaria rappresenta, quindi, una vera e propria terza via che si smarca dai recenti ed incerti tentativi di riscrivere gli spazi identitari del boom nell’era della globalità e rivela la natura seria e paradigmatica della necessità di ricreare attraverso l’immaginazione un mito sull’identità latinoamericana.File | Dimensione | Formato | |
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