The research faces the question about the relationship between sport justice and jurisdiction. Law no. 280/03 established that sporting decisions dealing with technical or disciplinary measures could not be contested in front of the national courts. This paper aims, first of all, to check the compatibility of this regulation with the constitutional guarantees. Italian courts have oscillated on defining sporting decision's legal nature. In some cases, national courts ruled that sporting decisions were a sort of administrative measure. In other rulings sporting trials were qualified as a specific type of arbitration. Law no. 280/03 had a strong impact on this debate. Jurisprudence was divided on interpretation of the exclusive sporting jurisdiction established by the law no. 280/03. At first, courts has preferred a constitutional interpretation of the clause in order to respect the human right of action. In the ruling no. 49/11, Constitutional Court rejected interpretation previously followed by the main jurisprudence. Constitutional judges underlined that law no. 280/03 does not allow any challenge of sporting decisions dealing with technical or disciplinary acts. This choice, they clarified, is safe from any charge of unconstitutionality. They explained that the censored provision does not exclude every kind of reaction: people who think that a technical or disciplinary decision may have caused a damage can apply to the ordinary judge for getting a money compensation. Legal doctrine has opposed solution prospected by Constitutional Court, especially because it doesn't take in account that money compensation is not always satisfactory. On the contrary, italian administrative jurisprudence has always affirmed that compensation is just one of available repairing techniques. Research proceeded trough a second critical profile. It has focused on theoretical reasons invoked by the law no. 280/03 to sustain the internal justice reserve. Law no. 280/03 justified the justice denial as a tribute to the pluralism. In other words, italian legislator has defined sporting phenomenon as a closed system that features autonomy and internal justice. Legislator has referred to the Institutionalism to provide a rational support to its provision that, as said before, is highly in contrast with the constitutional rights. Only if qualified as an autonomic system, sporting process can aspire to be independent from any outer control by the ordinary judges. It must be said that legal doctrine has conceived sporting order as a derivate system that lives and expires according to the state rules. In critical position, it can be noted that derivate systems definition is in conflict with the essence of Institutionalism that was to overcome the unsatisfactory conception of law as a complex of formal provisions.
Con la legge n. 280 del 2003 il Legislatore ha disciplinato i rapporti fra giustizia statale e giustizia sportiva. La normativa richiamata, all’art. 3, stabilisce una riserva di giurisdizione a favore delle corti sportive, limitatamente alle controversie che abbiano a oggetto l’applicazione di una misura tecnica o di una sanzione disciplinare. Le decisioni sportive rese in tali ambiti sono dunque insindacabili dal giudice dello Stato, pur quando sia dedotta in giudizio la lesione di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo. Il Legislatore esplicitamente richiama l’autonomia dell’ordinamento sportivo e, più a monte, la teoria del pluralismo ordinamentale, quali referenti teorici della scelta operata con la legge sopra citata. La presente dissertazione sottopone a vaglio critico la disciplina legislativa per evidenziarne due profili problematici. In primo luogo, si dubita della compatibilità dell’assetto così delineato con le norme costituzionali in tema di accesso alla giustizia. In secondo luogo, si denuncia l’uso ideologico delle teorie invocate dal Legislatore a sostegno della negazione della giurisdizione. Sul primo fronte si è reso necessario dare conto del dibattito sorto in dottrina e giurisprudenza sulla qualificazione giuridica della decisione sportiva di ultima istanza, nonché sull’ammissibilità in generale di un’autodichia sportiva. A questo proposito si sono dapprima rassegnate le posizioni di coloro che, sul presupposto della natura privatistica delle federazioni, riconducono il sistema di giustizia endo-associativo entro la categoria dell’arbitrato, nonché di coloro che, all’opposto, ritengono che le federazioni siano organi dell’ente pubblico coni e conseguentemente qualificano le relative decisioni alla stregua di provvedimenti amministrativi. Il secondo fronte problematico, riguardante l’ammissibilità in generale di una riserva sportiva, ha subìto un’evoluzione per effetto della legge n. 280 del 2003. Si è dunque proceduto, in primo luogo, con l’esposizione degli orientamenti giurisprudenziali antecedenti all’entrata in vigore della legge citata, i quali, nel tentativo di arginare le pretese di autonomia sportiva, hanno oscillato nel dare rilievo ora al criterio della natura del provvedimento (disciplinare, tecnico, economico o amministrativo), ora al criterio della rilevanza esterna della sanzione su una situazione giuridica soggettiva rilevante per l’ordinamento generale. Esaurita la rassegna delle posizioni della giurisprudenza ante 2003, la trattazione si è concentrata sulle interpretazioni della clausola di cui all’art. 3 della legge richiamata. A questo proposito si è dato conto di un orientamento giurisprudenziale di compromesso, secondo il quale la norma di cui sopra non poteva essere interpretata alla stregua di un diniego di giustizia e dunque doveva essere, al contrario, oggetto di una lettura costituzionalmente accettabile. In questa prospettiva, si è dunque affermato il principio per cui la riserva potesse operare a favore delle corti sportive solo allorquando la controversia non vertesse su una posizione giuridica qualificata dall’ordinamento generale. In altre parole, in caso di lesione di diritti soggettivi o interessi legittimi, la decisione sportiva, pur se di natura tecnica o disciplinare, non poteva essere sottratta al sindacato del giudice statale. La Consulta, però, ha ritenuto di non poter condividere la soluzione prospettata dalla giurisprudenza maggioritaria. Nella sentenza n. 49 del 2011, la Corte delle Leggi ha chiarito che la norma sospettata di incostituzionalità deve essere intesa nel senso che essa esclude in radice qualsiasi ricorso successivo al giudice statale avverso l’applicazione di una misura tecnica o disciplinare da parte delle autorità di settore. La disciplina, prosegue la Corte, non sarebbe in contrasto con alcuna previsione costituzionale. Il singolo, infatti, pur se impossibilitato a impugnare il provvedimento sgradito, conserverebbe comunque il diritto di agire avanti al giudice ordinario per ottenere la condanna al risarcimento del danno. La soluzione della Corte Costituzionale è stata quindi sottoposta a dure critiche da parte della dottrina. L’elaborato prospetta alcune delle perplessità destate da questa decisione nella comunità scientifica. In particolare, si osserva come la Corte sembri contraddire se stessa: la sentenza n. 249/11, infatti, si pone in contrasto con un orientamento consolidato della Corte delle Leggi che, anche con la storica sentenza n. 204/04, ha chiarito che il risarcimento del danno, lungi dal costituire una materia di giurisdizione, rappresenta (soltanto) una delle possibili tecniche di tutela di una posizione qualificata. La Corte, al contrario, concentrando la cognizione del giudice amministrativo sul solo risarcimento del danno da provvedimento illegittimo, sembra aver ribaltato il normale criterio di riparto giurisdizionale. Quest’ultimo è fondato, com’è noto, non già sulla natura del diritto azionato (diritto di credito al risarcimento del danno), bensì sulla natura della posizione giuridica che si assume lesa (diritto soggettivo o interesse legittimo). La trattazione si propone da ultimo di verificare i riferimenti teorici esplicitamente addotti dal Legislatore a sostegno delle proprie scelte. In particolare, si ritiene che la nozione di ordinamento derivato, invalsa nella comunità scientifica per qualificare il fenomeno sportivo, finisca per contraddire, se non vanificare, lo scopo della teoria istituzionalista. Quest’ultima, infatti, si era posta il pregevole obiettivo di superare l’insoddisfacente equazione normativistica che vorrebbe ridurre il diritto a sistema ordinato di norme; sennonché, proprio l’introduzione della categoria dell’ordinamento derivato, inteso quale sistema che in tanto esiste solo in quanto riconosciuto dallo Stato per effetto di una norma positiva, sembra confermare e, anzi, rafforzare la tesi formalista che fa coincidere la giuridicità delle norme nella positività delle stesse. Si rileva inoltre come il legislatore sembri avere invocato il principio pluralistico allo scopo politico di fornire una giustificazione razionale a una previsione, quale quella contenuta all’art. 3 della legge n. 280/03, che si trova palesemente in contrasto con le norme costituzionali. In altre parole, la supposta e mai provata autonomia originaria dell’ordinamento sportivo costituisce l’unico argomento funzionale alla giustificazione del diniego di giustizia. Più precisamente, la disciplina che ci occupa si fonda su un falso sillogismo, nel quale il termine autonomia è inteso sia come indipendenza assoluta sia come esistenza soltanto derivata, circoscritta nei limiti specificamente delineati dalla norma generale dell’ordinamento superiore. L’ambiguità del lemma utilizzato permette di giustificare, da un lato, la riserva di giustizia, dall’altro il contenimento della stessa entro la materia tecnica e disciplinare. Da ultimo si diffida l’interprete dall’accontentarsi di una giustificazione del sistema che si fondi solo ed unicamente sull’avvallo che esso abbia ricevuto da parte della Consulta. Ogni legittimazione della norma che si fondi sull’autorità che l’ha emessa adombra il rischio di una nuova deriva verso il normativismo. Quest’ultimo, disinteressandosi del contenuto delle disposizioni e radicando la giuridicità delle norme sulla conformità formale delle stesse al paradigma previsto per la loro emanazione, ha di fatto approvato un’idea di ordinamento in cui giustizia e giuridicità possono non coincidere. Il caso di specie, del resto, pare esserne un tipico esempio: la riserva di giustizia, pur se liberticida e palesemente in contrasto con il diritto fondamentale di azione, appare tuttavia pienamente legittima per effetto della mediazione dell’autorità, in specie la Corte Costituzionale.
Diritto dello sport e diritto dello Stato. Per un superamento della configurazione in termini autonomistici del sistema di giustizia sportiva / Fassina, Laura. - (2015 Jan 27).
Diritto dello sport e diritto dello Stato. Per un superamento della configurazione in termini autonomistici del sistema di giustizia sportiva
Fassina, Laura
2015
Abstract
Con la legge n. 280 del 2003 il Legislatore ha disciplinato i rapporti fra giustizia statale e giustizia sportiva. La normativa richiamata, all’art. 3, stabilisce una riserva di giurisdizione a favore delle corti sportive, limitatamente alle controversie che abbiano a oggetto l’applicazione di una misura tecnica o di una sanzione disciplinare. Le decisioni sportive rese in tali ambiti sono dunque insindacabili dal giudice dello Stato, pur quando sia dedotta in giudizio la lesione di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo. Il Legislatore esplicitamente richiama l’autonomia dell’ordinamento sportivo e, più a monte, la teoria del pluralismo ordinamentale, quali referenti teorici della scelta operata con la legge sopra citata. La presente dissertazione sottopone a vaglio critico la disciplina legislativa per evidenziarne due profili problematici. In primo luogo, si dubita della compatibilità dell’assetto così delineato con le norme costituzionali in tema di accesso alla giustizia. In secondo luogo, si denuncia l’uso ideologico delle teorie invocate dal Legislatore a sostegno della negazione della giurisdizione. Sul primo fronte si è reso necessario dare conto del dibattito sorto in dottrina e giurisprudenza sulla qualificazione giuridica della decisione sportiva di ultima istanza, nonché sull’ammissibilità in generale di un’autodichia sportiva. A questo proposito si sono dapprima rassegnate le posizioni di coloro che, sul presupposto della natura privatistica delle federazioni, riconducono il sistema di giustizia endo-associativo entro la categoria dell’arbitrato, nonché di coloro che, all’opposto, ritengono che le federazioni siano organi dell’ente pubblico coni e conseguentemente qualificano le relative decisioni alla stregua di provvedimenti amministrativi. Il secondo fronte problematico, riguardante l’ammissibilità in generale di una riserva sportiva, ha subìto un’evoluzione per effetto della legge n. 280 del 2003. Si è dunque proceduto, in primo luogo, con l’esposizione degli orientamenti giurisprudenziali antecedenti all’entrata in vigore della legge citata, i quali, nel tentativo di arginare le pretese di autonomia sportiva, hanno oscillato nel dare rilievo ora al criterio della natura del provvedimento (disciplinare, tecnico, economico o amministrativo), ora al criterio della rilevanza esterna della sanzione su una situazione giuridica soggettiva rilevante per l’ordinamento generale. Esaurita la rassegna delle posizioni della giurisprudenza ante 2003, la trattazione si è concentrata sulle interpretazioni della clausola di cui all’art. 3 della legge richiamata. A questo proposito si è dato conto di un orientamento giurisprudenziale di compromesso, secondo il quale la norma di cui sopra non poteva essere interpretata alla stregua di un diniego di giustizia e dunque doveva essere, al contrario, oggetto di una lettura costituzionalmente accettabile. In questa prospettiva, si è dunque affermato il principio per cui la riserva potesse operare a favore delle corti sportive solo allorquando la controversia non vertesse su una posizione giuridica qualificata dall’ordinamento generale. In altre parole, in caso di lesione di diritti soggettivi o interessi legittimi, la decisione sportiva, pur se di natura tecnica o disciplinare, non poteva essere sottratta al sindacato del giudice statale. La Consulta, però, ha ritenuto di non poter condividere la soluzione prospettata dalla giurisprudenza maggioritaria. Nella sentenza n. 49 del 2011, la Corte delle Leggi ha chiarito che la norma sospettata di incostituzionalità deve essere intesa nel senso che essa esclude in radice qualsiasi ricorso successivo al giudice statale avverso l’applicazione di una misura tecnica o disciplinare da parte delle autorità di settore. La disciplina, prosegue la Corte, non sarebbe in contrasto con alcuna previsione costituzionale. Il singolo, infatti, pur se impossibilitato a impugnare il provvedimento sgradito, conserverebbe comunque il diritto di agire avanti al giudice ordinario per ottenere la condanna al risarcimento del danno. La soluzione della Corte Costituzionale è stata quindi sottoposta a dure critiche da parte della dottrina. L’elaborato prospetta alcune delle perplessità destate da questa decisione nella comunità scientifica. In particolare, si osserva come la Corte sembri contraddire se stessa: la sentenza n. 249/11, infatti, si pone in contrasto con un orientamento consolidato della Corte delle Leggi che, anche con la storica sentenza n. 204/04, ha chiarito che il risarcimento del danno, lungi dal costituire una materia di giurisdizione, rappresenta (soltanto) una delle possibili tecniche di tutela di una posizione qualificata. La Corte, al contrario, concentrando la cognizione del giudice amministrativo sul solo risarcimento del danno da provvedimento illegittimo, sembra aver ribaltato il normale criterio di riparto giurisdizionale. Quest’ultimo è fondato, com’è noto, non già sulla natura del diritto azionato (diritto di credito al risarcimento del danno), bensì sulla natura della posizione giuridica che si assume lesa (diritto soggettivo o interesse legittimo). La trattazione si propone da ultimo di verificare i riferimenti teorici esplicitamente addotti dal Legislatore a sostegno delle proprie scelte. In particolare, si ritiene che la nozione di ordinamento derivato, invalsa nella comunità scientifica per qualificare il fenomeno sportivo, finisca per contraddire, se non vanificare, lo scopo della teoria istituzionalista. Quest’ultima, infatti, si era posta il pregevole obiettivo di superare l’insoddisfacente equazione normativistica che vorrebbe ridurre il diritto a sistema ordinato di norme; sennonché, proprio l’introduzione della categoria dell’ordinamento derivato, inteso quale sistema che in tanto esiste solo in quanto riconosciuto dallo Stato per effetto di una norma positiva, sembra confermare e, anzi, rafforzare la tesi formalista che fa coincidere la giuridicità delle norme nella positività delle stesse. Si rileva inoltre come il legislatore sembri avere invocato il principio pluralistico allo scopo politico di fornire una giustificazione razionale a una previsione, quale quella contenuta all’art. 3 della legge n. 280/03, che si trova palesemente in contrasto con le norme costituzionali. In altre parole, la supposta e mai provata autonomia originaria dell’ordinamento sportivo costituisce l’unico argomento funzionale alla giustificazione del diniego di giustizia. Più precisamente, la disciplina che ci occupa si fonda su un falso sillogismo, nel quale il termine autonomia è inteso sia come indipendenza assoluta sia come esistenza soltanto derivata, circoscritta nei limiti specificamente delineati dalla norma generale dell’ordinamento superiore. L’ambiguità del lemma utilizzato permette di giustificare, da un lato, la riserva di giustizia, dall’altro il contenimento della stessa entro la materia tecnica e disciplinare. Da ultimo si diffida l’interprete dall’accontentarsi di una giustificazione del sistema che si fondi solo ed unicamente sull’avvallo che esso abbia ricevuto da parte della Consulta. Ogni legittimazione della norma che si fondi sull’autorità che l’ha emessa adombra il rischio di una nuova deriva verso il normativismo. Quest’ultimo, disinteressandosi del contenuto delle disposizioni e radicando la giuridicità delle norme sulla conformità formale delle stesse al paradigma previsto per la loro emanazione, ha di fatto approvato un’idea di ordinamento in cui giustizia e giuridicità possono non coincidere. Il caso di specie, del resto, pare esserne un tipico esempio: la riserva di giustizia, pur se liberticida e palesemente in contrasto con il diritto fondamentale di azione, appare tuttavia pienamente legittima per effetto della mediazione dell’autorità, in specie la Corte Costituzionale.File | Dimensione | Formato | |
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