In a hymn to Zeus, the philosopher Cleanthes states that the hymn is a duty of nature for every man. He ascribes to this nature communion with the divine and a specific faculty, the ‘echou mimema’, a mysterious, untranslatable expression that, according to the philosopher, inspires the hymnic song. A few centuries later, the stoic Epictetus argues in his philosophical writings that it is because man is gifted with language that he cannot fail to praise the gods. Similarly, Plato was known in ancient times as the most ‘talented in the composition of hymns’ (Menander I), and he himself suggested that the hymn to Eros was the perfect example of philosophy. The hymn, he wrote in the Republic, is the only kind of poetry to be accepted in the polis. In recent times, modernity has been diagnosed with an irreparable ‘loss of the hymn’ (Bailly), despite a prophetic poet stated that praise is the deepest nature of human language (Rilke). What is a hymn, and why does it continue to dwell in latency through meditations on language to such an extent that it becomes a privileged moment in philosophy? Three sections, dedicated to the analysis of this question in the ancient world, explore the nature of the hymn, by revealing for the first time its philosophical exigence and by relieving it of the exegetical overdeterminations that crushed it under the weight of the encomium and the prayer. The hymn is rediscovered as a generic poetic composition that judges nothing and requires nothing; it just ‘speaks’. The search for its own elements leads the work into the field of the philosophy of language: the ‘hymnic’ dwells in the names of the gods, in the epithets, in the presentation of its own language. It lies in the invocation and in the nomination, and in the point of their confluence. The last reflections seek to extend the question to address a problem that has not ceased to challenge us: what is the form that philosophy, aware of its own debt to the hymnic language, has tried perpetually to reclaim?
In un inno a Zeus, il filosofo Cleante afferma che l'inno è un dovere di natura per ogni uomo. Egli assegna a quella natura la comunanza con il divino e una facoltà specifica: l'«echou mimema» - una misteriosa interpolazione che, rimandando alla sfera della voce, motiva il canto dell'inno. Nei suoi scritti filosofici, Epitteto, qualche secolo più avanti, sosterrà che è in quanto essere dotato di linguaggio («logos») che l’uomo non può non inneggiare a Zeus. Similmente, già Platone era stato definito in tempi antichi il più «capace tra i compositori di inni» (Menandro I), ed egli stesso aveva indicato nell’inno a Eros il più compiuto esempio di filosofia. L'inno, scriveva nella Repubblica, è la sola forma di poesia che sia «ammessa» nella polis a venire (Resp. 607 a). In tempi a noi recenti, al mondo moderno è stata diagnosticata un’irreparabile «perdita dell’inno» (Bailly), nonostante un poeta assai avveduto avesse indicato nella lode, ciò che in ogni tempo significa l’inno, la natura più profonda del linguaggio dell’uomo (Rilke). Che cos’è un inno e perché esso continua a dimorare in latenza tra le meditazioni che si attardano sul linguaggio, al punto da farsi momento privilegiato della filosofia? Tre sezioni, dedicate all’analisi della questione nel mondo antico, esplorano la sua natura più propria, alleggerendolo dalle sovradeterminazioni esegetiche che lo schiacciano ora sotto il peso dell’encomio ora sotto quello della preghiera. L’inno è ritrovato nella sua genericità di composizione poetica che nulla giudica e nulla richiede, ma solo dice. La ricerca dei suoi elementi propri trasporta lo studio nel regno della filosofia della parola: l’innico dimora nel nome, nell’epiteto, nell’epidissi del proprio linguaggio. Esso è nella vocazione e nella nominazione, e nel punto in cui queste, festive, si incontrano. L’ultimo gruppo di riflessioni non abbandona l’orizzonte disvelato ma prova ad estendere la questione a un problema la cui soluzione non ha cessato di interpellarci: qual è la forma che la filosofia, resasi cosciente del proprio debito nei confronti della parola innica, ha in ogni tempo cercato di riafferrare?
Inno e filosofia nel mondo antico / Di Vita, Nicoletta. - (2018 Jul 16).
Inno e filosofia nel mondo antico
Di Vita, Nicoletta
2018
Abstract
In un inno a Zeus, il filosofo Cleante afferma che l'inno è un dovere di natura per ogni uomo. Egli assegna a quella natura la comunanza con il divino e una facoltà specifica: l'«echou mimema» - una misteriosa interpolazione che, rimandando alla sfera della voce, motiva il canto dell'inno. Nei suoi scritti filosofici, Epitteto, qualche secolo più avanti, sosterrà che è in quanto essere dotato di linguaggio («logos») che l’uomo non può non inneggiare a Zeus. Similmente, già Platone era stato definito in tempi antichi il più «capace tra i compositori di inni» (Menandro I), ed egli stesso aveva indicato nell’inno a Eros il più compiuto esempio di filosofia. L'inno, scriveva nella Repubblica, è la sola forma di poesia che sia «ammessa» nella polis a venire (Resp. 607 a). In tempi a noi recenti, al mondo moderno è stata diagnosticata un’irreparabile «perdita dell’inno» (Bailly), nonostante un poeta assai avveduto avesse indicato nella lode, ciò che in ogni tempo significa l’inno, la natura più profonda del linguaggio dell’uomo (Rilke). Che cos’è un inno e perché esso continua a dimorare in latenza tra le meditazioni che si attardano sul linguaggio, al punto da farsi momento privilegiato della filosofia? Tre sezioni, dedicate all’analisi della questione nel mondo antico, esplorano la sua natura più propria, alleggerendolo dalle sovradeterminazioni esegetiche che lo schiacciano ora sotto il peso dell’encomio ora sotto quello della preghiera. L’inno è ritrovato nella sua genericità di composizione poetica che nulla giudica e nulla richiede, ma solo dice. La ricerca dei suoi elementi propri trasporta lo studio nel regno della filosofia della parola: l’innico dimora nel nome, nell’epiteto, nell’epidissi del proprio linguaggio. Esso è nella vocazione e nella nominazione, e nel punto in cui queste, festive, si incontrano. L’ultimo gruppo di riflessioni non abbandona l’orizzonte disvelato ma prova ad estendere la questione a un problema la cui soluzione non ha cessato di interpellarci: qual è la forma che la filosofia, resasi cosciente del proprio debito nei confronti della parola innica, ha in ogni tempo cercato di riafferrare?File | Dimensione | Formato | |
---|---|---|---|
Di_Vita_Nicoletta_Tesi.pdf
accesso aperto
Tipologia:
Tesi di dottorato
Licenza:
Accesso gratuito
Dimensione
2.86 MB
Formato
Adobe PDF
|
2.86 MB | Adobe PDF | Visualizza/Apri |
Pubblicazioni consigliate
I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.