Nei paesi occidentali la vecchiaia si è da tempo imposta come questione sociale, sia perché è cresciuto il numero delle persone in età avanzata sia perché è aumentato il numero degli anni che si vivono da vecchi. Ciò ha avuto delle ricadute anche sul piano educativo, generando una pluralità di sbocchi professionali specificatamente rivolti alla popolazione anziana. La presenza di figure educative è ormai prevista in svariati servizi: dai tradizionali istituti di riposo, dove purtroppo il lavoro educativo viene spesso a consistere in una serie di interventi di tipo intrattenitivo di piccolo cabotaggio, alle comunità-alloggio, ai centri diurni, all’educativa domiciliare, alle Università della terza età. Nel contempo si sono però aperti anche nuovi orizzonti di problematicità pedagogica. Se si vanno a considerare i tipi di anziani con cui le figure educative interagiscono, peraltro irriducibili entro la rigida ripartizione su base funzionale tra anziani autosufficienti e anziani non autosufficienti imperante in letteratura, si può constatare che, mentre nel caso di soggetti pienamente attivi o che non manifestano gravi compromissioni cognitive è possibile operare in una prospettiva propriamente educativa, cioè ideare e realizzare pratiche incentrate sulla progettazione esistenziale, sull’apprendimento di nuove conoscenze o sulla ri-significazione di un agire quotidiano le cui valenze possono essere andate perdute, ciò non può avvenire con le persone attempate che soffrono di gravi disturbi cognitivi dovuti a malattie cronico-degenerative. In questi casi, statisticamente sempre più frequenti proprio a causa dell’allungamento della durata media della vita, s’impone un ripensamento della triangolazione pedagogia-educazione-vecchiaia. Laddove il ruolo dell’educatore viene a coincidere con quello di promotore del benessere di anziani il cui decadimento cognitivo rappresenta quasi una smentita di uno dei capisaldi del lavoro educativo, cioè l’agire per favorire il perseguimento di livelli sempre più avanzati di autonomia dei soggetti o quantomeno per il suo mantenimento, si aprono importanti interrogativi sui contorni del suo profilo, ma emerge anche come il “differenziale pedagogico” della sua formazione, che vincola il suo sguardo all’integralità della persona, renda auspicabile il suo trasformarsi in consulente delle figure professionali preposte al prendersi cura assistenziale e alla cura terapeutica, così da garantire che l’uno e l’altra vengano inclusi nella più ampia e imprescindibile prospettiva dell’aver cura, grazie alla quale soltanto è possibile valorizzare incondizionatamente l’umanità di anziani che altrimenti rischierebbero di essere ridotti ad aggregati di sintomi da curare o di deficit da compensare.

La figura dell'educatore nel lavoro con l'anziano

GASPERI, EMMA
2017

Abstract

Nei paesi occidentali la vecchiaia si è da tempo imposta come questione sociale, sia perché è cresciuto il numero delle persone in età avanzata sia perché è aumentato il numero degli anni che si vivono da vecchi. Ciò ha avuto delle ricadute anche sul piano educativo, generando una pluralità di sbocchi professionali specificatamente rivolti alla popolazione anziana. La presenza di figure educative è ormai prevista in svariati servizi: dai tradizionali istituti di riposo, dove purtroppo il lavoro educativo viene spesso a consistere in una serie di interventi di tipo intrattenitivo di piccolo cabotaggio, alle comunità-alloggio, ai centri diurni, all’educativa domiciliare, alle Università della terza età. Nel contempo si sono però aperti anche nuovi orizzonti di problematicità pedagogica. Se si vanno a considerare i tipi di anziani con cui le figure educative interagiscono, peraltro irriducibili entro la rigida ripartizione su base funzionale tra anziani autosufficienti e anziani non autosufficienti imperante in letteratura, si può constatare che, mentre nel caso di soggetti pienamente attivi o che non manifestano gravi compromissioni cognitive è possibile operare in una prospettiva propriamente educativa, cioè ideare e realizzare pratiche incentrate sulla progettazione esistenziale, sull’apprendimento di nuove conoscenze o sulla ri-significazione di un agire quotidiano le cui valenze possono essere andate perdute, ciò non può avvenire con le persone attempate che soffrono di gravi disturbi cognitivi dovuti a malattie cronico-degenerative. In questi casi, statisticamente sempre più frequenti proprio a causa dell’allungamento della durata media della vita, s’impone un ripensamento della triangolazione pedagogia-educazione-vecchiaia. Laddove il ruolo dell’educatore viene a coincidere con quello di promotore del benessere di anziani il cui decadimento cognitivo rappresenta quasi una smentita di uno dei capisaldi del lavoro educativo, cioè l’agire per favorire il perseguimento di livelli sempre più avanzati di autonomia dei soggetti o quantomeno per il suo mantenimento, si aprono importanti interrogativi sui contorni del suo profilo, ma emerge anche come il “differenziale pedagogico” della sua formazione, che vincola il suo sguardo all’integralità della persona, renda auspicabile il suo trasformarsi in consulente delle figure professionali preposte al prendersi cura assistenziale e alla cura terapeutica, così da garantire che l’uno e l’altra vengano inclusi nella più ampia e imprescindibile prospettiva dell’aver cura, grazie alla quale soltanto è possibile valorizzare incondizionatamente l’umanità di anziani che altrimenti rischierebbero di essere ridotti ad aggregati di sintomi da curare o di deficit da compensare.
2017
L'educatore. Il "differenziale" di una professione pedagogica
978-88-6760-419-7
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