La prima parte del saggio ripercorre la serie dei Drawing Restraint di Matthew Barney (San Francisco, 1967) tenendo a fuoco la componente legata al disegno, la cui centralità è dichiarata fin dal titolo. Tramite l’atto del disegnare l’artista evoca l’atto creatore in generale, facendosi erede di una tradizione di matrice spiritualistica che dall’antichità si è spinta lungo tutto il Novecento. Il disegno, però, come la creazione, deve confrontarsi con l’altra fondamentale componente, pure espressa dal titolo: il restraint, ossia la resistenza opposta dallo statu quo. È precisamente nella lotta contro la resistenza che l’atto creativo trova il suo significato più profondo. Così l’artista si sottopone a vari impedimenti meccanici (lacci elastici, rampe inclinate, pareti da scalare…), che rendono terribilmente ardua l’esecuzione del “segno”, un mezzo già di per sé di scoraggiante debolezza di contro alle odierne tecnologie di produzione dell’immagine. Dal Drawing Restraint 7 del 1993 in poi il restraint ha assunto un carattere più metaforico, espresso tramite lo sviluppo di trame narrative. Barney ha così dato vita a narrazioni sempre più impegnative e cinematografiche, culminanti con Cremaster Cycle e Drawing Restraint 9. La seconda parte del saggio si sofferma sul fatto che in questi casi, oltre e più che il disegno, il modello di riferimento è la scultura, come è dichiarato dallo stesso artista. Si può dire che Barney metta in scena spettacoli di tale imponenza per giungere a convogliare una densità di significati altrimenti inarrivabile nelle sculture (ma nei disegni e nelle fotografie), la cui esposizione conclude ciascun progetto. Allo scopo Barney si avvale non di un metodo narrativo tradizionale ma di un “metodo mitico”, che sfrutta la libera analogia per intessere una fittissima rete di rimandi che ambiscono a coprire ogni possibile ambito dell’umana esperienza: dall’intellettualismo sopraffino alla corporeità più lasciva. L’espressione “metodo mitico” è stata coniata dal poeta T.S. Eliot a proposito del metodo di scrittura utilizzato da James Joyce nell’Ulisse. Proprio questa pietra miliare della cultura del Novecento si offre a un proficuo confronto con l’opera di Barney.

La natura dei restraints: da impedimento meccanico a propulsore narrativo. Sguardo sulla ricerca di Matthew Barney dal punto di vista di disegno e scultura

BARTORELLI, GUIDO
2012

Abstract

La prima parte del saggio ripercorre la serie dei Drawing Restraint di Matthew Barney (San Francisco, 1967) tenendo a fuoco la componente legata al disegno, la cui centralità è dichiarata fin dal titolo. Tramite l’atto del disegnare l’artista evoca l’atto creatore in generale, facendosi erede di una tradizione di matrice spiritualistica che dall’antichità si è spinta lungo tutto il Novecento. Il disegno, però, come la creazione, deve confrontarsi con l’altra fondamentale componente, pure espressa dal titolo: il restraint, ossia la resistenza opposta dallo statu quo. È precisamente nella lotta contro la resistenza che l’atto creativo trova il suo significato più profondo. Così l’artista si sottopone a vari impedimenti meccanici (lacci elastici, rampe inclinate, pareti da scalare…), che rendono terribilmente ardua l’esecuzione del “segno”, un mezzo già di per sé di scoraggiante debolezza di contro alle odierne tecnologie di produzione dell’immagine. Dal Drawing Restraint 7 del 1993 in poi il restraint ha assunto un carattere più metaforico, espresso tramite lo sviluppo di trame narrative. Barney ha così dato vita a narrazioni sempre più impegnative e cinematografiche, culminanti con Cremaster Cycle e Drawing Restraint 9. La seconda parte del saggio si sofferma sul fatto che in questi casi, oltre e più che il disegno, il modello di riferimento è la scultura, come è dichiarato dallo stesso artista. Si può dire che Barney metta in scena spettacoli di tale imponenza per giungere a convogliare una densità di significati altrimenti inarrivabile nelle sculture (ma nei disegni e nelle fotografie), la cui esposizione conclude ciascun progetto. Allo scopo Barney si avvale non di un metodo narrativo tradizionale ma di un “metodo mitico”, che sfrutta la libera analogia per intessere una fittissima rete di rimandi che ambiscono a coprire ogni possibile ambito dell’umana esperienza: dall’intellettualismo sopraffino alla corporeità più lasciva. L’espressione “metodo mitico” è stata coniata dal poeta T.S. Eliot a proposito del metodo di scrittura utilizzato da James Joyce nell’Ulisse. Proprio questa pietra miliare della cultura del Novecento si offre a un proficuo confronto con l’opera di Barney.
2012
Matthew Barney. Polimorfismo, multimodalità, neobarocco
9788836621835
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