Il lavoro parte dalla constatazione che, pur essendo connessi al possesso della cittadinanza dell’Unione una serie di diritti esplicitamente previsti dagli artt. 20 e seguenti FUE, una parte non indifferente dei diritti di cittadinanza di cui godono i cittadini dell’Unione non sono stati introdotti ex novo con il Trattato di Maastricht. Da un lato, infatti, diritti di circolazione e soggiorno erano riconosciuti in modo esplicito ai cittadini anche non economicamente attivi sul mercato interno, in forza della normativa derivata, o erano affermati in via interpretativa dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia relativa all’applicazione dell’art. 7 CEE. In secondo luogo, anche quei diritti di circolazione e soggiorno originariamente legati ad attività economiche esperite sul mercato interno (di cui si dirà meglio più oltre) erano stati interpretati dalla Corte in modo tale da assicurarne il godimento da parte di un numero sempre crescente di cittadini, anche non attivi economicamente. Ancora, il diritto comunitario, già prima del Trattato di Maastricht, faceva discendere dal possesso della cittadinanza degli Stati membri tutta una serie di posizioni giuridiche positive, relative alla partecipazione alla vita istituzionale dell’Unione. Siffatte posizioni giuridiche continuano a tutt’oggi ad essere riconosciute ai cittadini degli Stati membri. In quest’ottica, il lavoro propone una lettura secondo cui, nonostante la lettera dell’art. 20 FUE, secondo cui la cittadinanza dell’Unione «non sostituisce» la cittadinanza degli Stati membri, non sembra azzardato sostenere che il nuovo status di cittadino dell’Unione si costruisca proprio a partire dai diritti che, già prima del Trattato di Maastricht, erano riconosciuti al cittadino di uno Stato membro. Il lavoro si incentra pertanto sull’analisi delle conseguenze che discendono, in diritto UE, dal possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri, a prescindere dagli artt. 20 e seguenti FUE. In primo luogo, l’a. analizza il rilievo della cittadinanza di uno Stato membro come criterio di applicabilità del diritto UE, ed in particolare della libertà di circolazione dei lavoratori, di cui agli artt. 45 ss. FUE (i), della libertà di stabilimento, prevista dagli artt. 49 ss. FUE, e della libertà di prestazione dei servizi, disciplinata dagli artt. 56 ss. FUE (ii), così come integrate dal diritto derivato. L’a. sottolinea altresì la coesistenza di regimi di diritto derivato che prevedono diritti di circolazione all’interno dell’Unione, e status di assimilazione ai cittadini di questa, anche per cittadini di Paesi terzi, dando vita ad una nuova dimensione dei diritti di cittadinanza dell’Unione - più ampia di quella ancorata nel testo del Trattato e da questo garantita a livello “costituzionale”- che non risulta più necessariamente vincolata al possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri. L’a. affronta poi il profilo della cittadinanza di uno Stato membro come criterio discriminante proibito, facendo ampio riferimento alla giurisprudenza della Corte. L’a sottolinea come si possa riconoscere un fondamentale effetto espansivo indiretto della sfera giuridica dei cittadini, che si manifesta attraverso l’operare del principio di non discriminazione o di assimilazione. Tale principio, opera infatti come strumento di espansione per relationem, determinando in ciascuno degli Stati dell’Unione l’estensione ai cittadini UE del godimento dei diritti originariamente previsti dalle legislazioni degli Stati membri a favore dei soli nazionali. Nel sottolinare poi il logoramento del paradigma della discriminazione: discriminazioni indirette e ostacoli, l’a. mette in luce come nel tempo la giurisprudenza della Corte abbia sviluppato un approccio più ambizioso rispetto al semplice principio di assimilazione, e ciò la massima evidenza in relazione alla libertà di prestazione dei servizi, richiedendo il superamento del paradigma della non discriminazione. In quest’ambito, l’a. sottolinea come la giurisprudenza sia giunta a riconoscere che disposizioni nazionali che pure in astratto non ostacolano la libertà di circolazione delle persone odei servizi, possono tuttavia trasformarsi in ostacoli inammissibili, ove la loro applicazione a situazioni determinate comporti la negazione o la limitazione di quella libertà in capo ad un singolo cittadino dell’Unione. Quale esempio eminente di questa giurisprudenza si ricorda in particolare la sentenza Carpenter del 2002, sottolineano come di lì alla valorizzazione del divieto di ostacolo al godimento di diritti di cittadinanza il passo sia breve, come dimostrano in particolare le sentenze Chen del 2004, Grunkin e Paul del 2008 e Ruiz Zambrano del 2010. Il lavoro analizza poi, con ampio riferimento alla giurisprudenza il ruolo residuale dell’art. 18 FUE nel vietare, nell’intero campo di applicazione dei Trattati, qualsiasi discriminazione operata in base alla nazionalità. Il lavoro analizza poi la possibilità, contemplata all’art. 21 FUE, che le istituzioni UE appongano delle condizioni o prevedano limitazioni a tale libertà sottolineando come, da un lato, quell’art. esprima una rottura del parallelismo ideale con le libertà di circolazione del mercato interno, in relazione alle quali, infatti, l’intervento delle istituzioni UE, che si estrinseca nell’adozione di atti di diritto derivato, persegue in primo luogo ed essenzialmente la finalità di eliminare o ridurre gli ostacoli ed i limiti presenti nelle legislazioni nazionali all’esercizio di quelle libertà, e non invece quella di condizionare o limitare l’esercizio delle stesse. Dall’altro lato si sottolinea come tale rottura sia stata però fortemente mitigata dalla Corte: la comune natura di diritti fondamentali, e l’analogia quanto al contenuto sostanziale delle libertà di circolazione delle persone nel mercato comune e della libertà di circolazione dei cittadini dell’Unione rimangono infatti elementi decisivi nell’orientare la giurisprudenza. Ancora, l’a. osserva come la valorizzazione del possesso della cittadinanza dell’Unione come lo «status fondamentale dei cittadini degli Stati membri», attesti oramai il tendenziale superamento del limite di applicabilità delle norme del Trattato alle situazioni cd. puramente interne ad uno Stato membro. La cittadinanza è ulteriormente analizzata quale requisito per la partecipazione alla vita istituzionale dell’Unione, al di là della previsione del l’art. 22 FUE, in relazione alla definizione della composizione delle istituzioni e organismi del sistema dell’Unione. In particolare, se per tutte le istituzioni dotate di poteri decisionali e di controllo si deve escludere la possibilità di nominare membri del collegio cittadini di Stati terzi una conclusione diversa sembra possibile per il Comitato economico e sociale ed il Comitato delle Regioni. Si sottolinea poi la specificità degli organi giurisdizionali, in particolare in relazione alla figura dell’avvocato generale davanti alla Corte. Infine, per quanto riguarda il Parlamento Europeo, si sottolinea come, al di là dell’ampia uniformazione del ruolo della cittadinanza nella disciplina dell’elettorato attivo e passivo, rimanga in realtà una sfera di discrezionalità in capo agli Stati: come dimostrato dalle sentenze Spagna c. Regno Unito del 2006, infatti, il diritto UE non si oppone a che uno Stato membro, coerentemente con le sue tradizioni costituzionali, riconosca la pienezza dei diritti politici anche a particolari categorie di non cittadini, che abbiano però con quello Stato un legame di particolare intensità, attribuendo loro elettorato attivo e passivo nelle elezioni politiche nazionali e, ciò che più importa, nelle elezioni per il Parlamento Europeo. Del pari, come si desume dalla sentenza Eman e Sevinger, pronunciata nello stesso giorno, uno Stato è in linea di principio libero di limitare il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni del PE, non riconoscendolo a tutti i propri cittadini, ma solo a quelli che risiedano all’interno del territorio statale. Infine, il lavoro analizza la questione dell’attribuzione della cittadinanza degli Stati membri e dell’Unione, e dei limiti che il diritto dell’Unione impone agli Stati membri in tale settore. In tale contesto, l’a. osserva come, avendo la Corte chiarito, nella sentenza Kaur del 2001, che uno Stato membro è libero di riconoscere diversi tipi di cittadinanza, tra cui una limitata, cui non è collegato il godimento dei diritti previsti dal diritto UE, venga meno quello che sembrerebbe l’assioma di partenza di ogni considerazione sulla cittadinanza dell’Unione, vale a dire la necessaria corrispondenza tra il possesso di questa e il possesso della cittadinanza nazionale. Venuto meno tale assioma, ed in considerazione della libertà degli Stati membri di istituire nessi giuridici di vario grado con i singoli ad essi in vario modo legati, si profila peraltro un’altra possibile evoluzione: quella della limitazione, da parte del diritto UE, degli effetti di un’attribuzione di cittadinanza che non corrisponda a dei legami effettivi tra il singolo e lo Stato membro.
IL RILIEVO DELLA CITTADINANZA NEL SISTEMA DELL’UNIONE EUROPEA: L’INTERAZIONE TRA CITTADINANZE “NAZIONALI” E CITTADINANZA DELL’UNIONE
CORTESE, BERNARDO
2011
Abstract
Il lavoro parte dalla constatazione che, pur essendo connessi al possesso della cittadinanza dell’Unione una serie di diritti esplicitamente previsti dagli artt. 20 e seguenti FUE, una parte non indifferente dei diritti di cittadinanza di cui godono i cittadini dell’Unione non sono stati introdotti ex novo con il Trattato di Maastricht. Da un lato, infatti, diritti di circolazione e soggiorno erano riconosciuti in modo esplicito ai cittadini anche non economicamente attivi sul mercato interno, in forza della normativa derivata, o erano affermati in via interpretativa dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia relativa all’applicazione dell’art. 7 CEE. In secondo luogo, anche quei diritti di circolazione e soggiorno originariamente legati ad attività economiche esperite sul mercato interno (di cui si dirà meglio più oltre) erano stati interpretati dalla Corte in modo tale da assicurarne il godimento da parte di un numero sempre crescente di cittadini, anche non attivi economicamente. Ancora, il diritto comunitario, già prima del Trattato di Maastricht, faceva discendere dal possesso della cittadinanza degli Stati membri tutta una serie di posizioni giuridiche positive, relative alla partecipazione alla vita istituzionale dell’Unione. Siffatte posizioni giuridiche continuano a tutt’oggi ad essere riconosciute ai cittadini degli Stati membri. In quest’ottica, il lavoro propone una lettura secondo cui, nonostante la lettera dell’art. 20 FUE, secondo cui la cittadinanza dell’Unione «non sostituisce» la cittadinanza degli Stati membri, non sembra azzardato sostenere che il nuovo status di cittadino dell’Unione si costruisca proprio a partire dai diritti che, già prima del Trattato di Maastricht, erano riconosciuti al cittadino di uno Stato membro. Il lavoro si incentra pertanto sull’analisi delle conseguenze che discendono, in diritto UE, dal possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri, a prescindere dagli artt. 20 e seguenti FUE. In primo luogo, l’a. analizza il rilievo della cittadinanza di uno Stato membro come criterio di applicabilità del diritto UE, ed in particolare della libertà di circolazione dei lavoratori, di cui agli artt. 45 ss. FUE (i), della libertà di stabilimento, prevista dagli artt. 49 ss. FUE, e della libertà di prestazione dei servizi, disciplinata dagli artt. 56 ss. FUE (ii), così come integrate dal diritto derivato. L’a. sottolinea altresì la coesistenza di regimi di diritto derivato che prevedono diritti di circolazione all’interno dell’Unione, e status di assimilazione ai cittadini di questa, anche per cittadini di Paesi terzi, dando vita ad una nuova dimensione dei diritti di cittadinanza dell’Unione - più ampia di quella ancorata nel testo del Trattato e da questo garantita a livello “costituzionale”- che non risulta più necessariamente vincolata al possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri. L’a. affronta poi il profilo della cittadinanza di uno Stato membro come criterio discriminante proibito, facendo ampio riferimento alla giurisprudenza della Corte. L’a sottolinea come si possa riconoscere un fondamentale effetto espansivo indiretto della sfera giuridica dei cittadini, che si manifesta attraverso l’operare del principio di non discriminazione o di assimilazione. Tale principio, opera infatti come strumento di espansione per relationem, determinando in ciascuno degli Stati dell’Unione l’estensione ai cittadini UE del godimento dei diritti originariamente previsti dalle legislazioni degli Stati membri a favore dei soli nazionali. Nel sottolinare poi il logoramento del paradigma della discriminazione: discriminazioni indirette e ostacoli, l’a. mette in luce come nel tempo la giurisprudenza della Corte abbia sviluppato un approccio più ambizioso rispetto al semplice principio di assimilazione, e ciò la massima evidenza in relazione alla libertà di prestazione dei servizi, richiedendo il superamento del paradigma della non discriminazione. In quest’ambito, l’a. sottolinea come la giurisprudenza sia giunta a riconoscere che disposizioni nazionali che pure in astratto non ostacolano la libertà di circolazione delle persone odei servizi, possono tuttavia trasformarsi in ostacoli inammissibili, ove la loro applicazione a situazioni determinate comporti la negazione o la limitazione di quella libertà in capo ad un singolo cittadino dell’Unione. Quale esempio eminente di questa giurisprudenza si ricorda in particolare la sentenza Carpenter del 2002, sottolineano come di lì alla valorizzazione del divieto di ostacolo al godimento di diritti di cittadinanza il passo sia breve, come dimostrano in particolare le sentenze Chen del 2004, Grunkin e Paul del 2008 e Ruiz Zambrano del 2010. Il lavoro analizza poi, con ampio riferimento alla giurisprudenza il ruolo residuale dell’art. 18 FUE nel vietare, nell’intero campo di applicazione dei Trattati, qualsiasi discriminazione operata in base alla nazionalità. Il lavoro analizza poi la possibilità, contemplata all’art. 21 FUE, che le istituzioni UE appongano delle condizioni o prevedano limitazioni a tale libertà sottolineando come, da un lato, quell’art. esprima una rottura del parallelismo ideale con le libertà di circolazione del mercato interno, in relazione alle quali, infatti, l’intervento delle istituzioni UE, che si estrinseca nell’adozione di atti di diritto derivato, persegue in primo luogo ed essenzialmente la finalità di eliminare o ridurre gli ostacoli ed i limiti presenti nelle legislazioni nazionali all’esercizio di quelle libertà, e non invece quella di condizionare o limitare l’esercizio delle stesse. Dall’altro lato si sottolinea come tale rottura sia stata però fortemente mitigata dalla Corte: la comune natura di diritti fondamentali, e l’analogia quanto al contenuto sostanziale delle libertà di circolazione delle persone nel mercato comune e della libertà di circolazione dei cittadini dell’Unione rimangono infatti elementi decisivi nell’orientare la giurisprudenza. Ancora, l’a. osserva come la valorizzazione del possesso della cittadinanza dell’Unione come lo «status fondamentale dei cittadini degli Stati membri», attesti oramai il tendenziale superamento del limite di applicabilità delle norme del Trattato alle situazioni cd. puramente interne ad uno Stato membro. La cittadinanza è ulteriormente analizzata quale requisito per la partecipazione alla vita istituzionale dell’Unione, al di là della previsione del l’art. 22 FUE, in relazione alla definizione della composizione delle istituzioni e organismi del sistema dell’Unione. In particolare, se per tutte le istituzioni dotate di poteri decisionali e di controllo si deve escludere la possibilità di nominare membri del collegio cittadini di Stati terzi una conclusione diversa sembra possibile per il Comitato economico e sociale ed il Comitato delle Regioni. Si sottolinea poi la specificità degli organi giurisdizionali, in particolare in relazione alla figura dell’avvocato generale davanti alla Corte. Infine, per quanto riguarda il Parlamento Europeo, si sottolinea come, al di là dell’ampia uniformazione del ruolo della cittadinanza nella disciplina dell’elettorato attivo e passivo, rimanga in realtà una sfera di discrezionalità in capo agli Stati: come dimostrato dalle sentenze Spagna c. Regno Unito del 2006, infatti, il diritto UE non si oppone a che uno Stato membro, coerentemente con le sue tradizioni costituzionali, riconosca la pienezza dei diritti politici anche a particolari categorie di non cittadini, che abbiano però con quello Stato un legame di particolare intensità, attribuendo loro elettorato attivo e passivo nelle elezioni politiche nazionali e, ciò che più importa, nelle elezioni per il Parlamento Europeo. Del pari, come si desume dalla sentenza Eman e Sevinger, pronunciata nello stesso giorno, uno Stato è in linea di principio libero di limitare il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni del PE, non riconoscendolo a tutti i propri cittadini, ma solo a quelli che risiedano all’interno del territorio statale. Infine, il lavoro analizza la questione dell’attribuzione della cittadinanza degli Stati membri e dell’Unione, e dei limiti che il diritto dell’Unione impone agli Stati membri in tale settore. In tale contesto, l’a. osserva come, avendo la Corte chiarito, nella sentenza Kaur del 2001, che uno Stato membro è libero di riconoscere diversi tipi di cittadinanza, tra cui una limitata, cui non è collegato il godimento dei diritti previsti dal diritto UE, venga meno quello che sembrerebbe l’assioma di partenza di ogni considerazione sulla cittadinanza dell’Unione, vale a dire la necessaria corrispondenza tra il possesso di questa e il possesso della cittadinanza nazionale. Venuto meno tale assioma, ed in considerazione della libertà degli Stati membri di istituire nessi giuridici di vario grado con i singoli ad essi in vario modo legati, si profila peraltro un’altra possibile evoluzione: quella della limitazione, da parte del diritto UE, degli effetti di un’attribuzione di cittadinanza che non corrisponda a dei legami effettivi tra il singolo e lo Stato membro.Pubblicazioni consigliate
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