Le spinte pratiche ed ideologiche della Grande Guerra hanno avuto, nel Ventennio, un riflesso di lunga durata (sia nella critica dell’arte contemporanea che nella pratica della tutela), ibridando però pulsioni scioviniste e questioni pianamente identitarie. Con l’ulteriore complicazione del diffondersi di teorie purovisibiliste e filosofia crociana, nonché della revisione legislativa del settore ecc. L’articolo ricerca moventi ed effetti di quella stagione, nei saggi pubblicati fra 1914 e 1920 da tre periodici rappresentativi. Innanzitutto il “Bollettino d’arte” del Ministero della Pubblica istruzione, che si astiene dalla campagna interventista e, fino al 1917, dedica alla guerra articoli estremamente brevi. I pezzi sui nuovi monumenti agli eroi sono un mero pretesto per richiamare la vigilanza amministrativa sui centri storici. Ottiene così un effetto specchio, in cui il fermento ideologico interagisce con i preesistenti problemi di tutela dell’Italia. Una virata ideologica c’è soltanto dopo il ripetuto dilagare degli austriaci nel nostro territorio, nel 1917. Allora la Direzione generale dell’Antichità e Belle Arti licenzia La difesa del patrimonio artistico italiano contro i pericoli della guerra (1915-1917): I. Protezione dei monumenti, cui fa seguito, nel ’18, La protezione degli oggetti d’arte mobili. Qui le venature ideologiche dei testi si fanno consistenti, ma, soprattutto, la rilevante campagna fotografica, pubblicata a documentare i paramenti difensivi, impone alla rivista ministeriale modi e ritmi visivi mutuati dalla propaganda. Ne sopravvivrà, a ostilità chiuse, un modo più densamente illustrato di fare critica d’arte. Completamente diversa la situazione espressa dal gruppo de “L’Arte”, rivista di Adolfo Venturi, dedicata agli studi dal Medioevo all’Ottocento. Qui l’intero conflitto trascorre sotto silenzio. Solo nel ’19 – di fronte ai trattati di pace – il periodico esprime una violenta fiammata nazionalista, per la firma di Eva Tea. Che sostiene la richiesta di avere – come risarcimento per spese di protezione e per danni ai monumenti – capolavori di proprietà dei defunti Imperi centrali. La manovra si esplica pubblicando una singolare storia del collezionismo, che ridisegna i confini patrii attraverso una geografia sontuosa di raccolte rubate e/o comprate – fra Asburgo, Lorena e Bode – in Italia. Inoltre Tea, nel recensire le esposizioni interalleate, si preoccupa di attivare il nesso tradizione-modernità per riscattare criticamente l’Ottocento italiano. Il modo è un’opposizione diretta e aggressiva rispetto alle esperienze straniere – vedi caso francesi – dal ’700 in poi. Iniettato nel dibattito storiografico preesistente, il germe nazionalista si assicura così una vitalità lunghissima, fino alle sfide Ojetti-Venturi degli anni Venti e oltre. Ciò detto, rimane sorprendente il confronto sostenuto, con il fermento bellico, da una rivista informativa, modestamente militante, come “Pagine d’arte” (dal 1914 raccordata alla “Rassegna d’arte antica e moderna”). Largamente influenzata da uno dei suoi redattori, Raffaello Giolli, la testata tematizza con chiarezza le provocazioni ideologiche della guerra: si fa interventista attorno al bombardamento di Reims, ma ne trae anche l’imperativo a un’equa attività conservativa per i tempi di pace; incrementa il proprio apparato iconografico su modello propagandistico, ma pubblica anche la produzione artistica recente – sia pur di soggetto militare – degli stranieri. Insomma cerca, per artisti e intellettuali, un ruolo plausibile dentro la crisi. E qui, ben più che altrove, l’osmosi fra crismi identitari e derive nazionaliste è fortissima e, spesso, proficua. Ne uscirà un modello di militanza intriso di creatività, di interventismo culturale e sociale. Opzione critica chiusa già nel 1920, la cui anima chiara, Raffaello Giolli appunto, si opporrà alla nostra deriva totalitaria e nazionalista lungamente, sino a morirne.
Accenti nazionalistici negli scritti d'arte su periodico: 1914-1920. Una campionatura.
NEZZO, MARTA
2010
Abstract
Le spinte pratiche ed ideologiche della Grande Guerra hanno avuto, nel Ventennio, un riflesso di lunga durata (sia nella critica dell’arte contemporanea che nella pratica della tutela), ibridando però pulsioni scioviniste e questioni pianamente identitarie. Con l’ulteriore complicazione del diffondersi di teorie purovisibiliste e filosofia crociana, nonché della revisione legislativa del settore ecc. L’articolo ricerca moventi ed effetti di quella stagione, nei saggi pubblicati fra 1914 e 1920 da tre periodici rappresentativi. Innanzitutto il “Bollettino d’arte” del Ministero della Pubblica istruzione, che si astiene dalla campagna interventista e, fino al 1917, dedica alla guerra articoli estremamente brevi. I pezzi sui nuovi monumenti agli eroi sono un mero pretesto per richiamare la vigilanza amministrativa sui centri storici. Ottiene così un effetto specchio, in cui il fermento ideologico interagisce con i preesistenti problemi di tutela dell’Italia. Una virata ideologica c’è soltanto dopo il ripetuto dilagare degli austriaci nel nostro territorio, nel 1917. Allora la Direzione generale dell’Antichità e Belle Arti licenzia La difesa del patrimonio artistico italiano contro i pericoli della guerra (1915-1917): I. Protezione dei monumenti, cui fa seguito, nel ’18, La protezione degli oggetti d’arte mobili. Qui le venature ideologiche dei testi si fanno consistenti, ma, soprattutto, la rilevante campagna fotografica, pubblicata a documentare i paramenti difensivi, impone alla rivista ministeriale modi e ritmi visivi mutuati dalla propaganda. Ne sopravvivrà, a ostilità chiuse, un modo più densamente illustrato di fare critica d’arte. Completamente diversa la situazione espressa dal gruppo de “L’Arte”, rivista di Adolfo Venturi, dedicata agli studi dal Medioevo all’Ottocento. Qui l’intero conflitto trascorre sotto silenzio. Solo nel ’19 – di fronte ai trattati di pace – il periodico esprime una violenta fiammata nazionalista, per la firma di Eva Tea. Che sostiene la richiesta di avere – come risarcimento per spese di protezione e per danni ai monumenti – capolavori di proprietà dei defunti Imperi centrali. La manovra si esplica pubblicando una singolare storia del collezionismo, che ridisegna i confini patrii attraverso una geografia sontuosa di raccolte rubate e/o comprate – fra Asburgo, Lorena e Bode – in Italia. Inoltre Tea, nel recensire le esposizioni interalleate, si preoccupa di attivare il nesso tradizione-modernità per riscattare criticamente l’Ottocento italiano. Il modo è un’opposizione diretta e aggressiva rispetto alle esperienze straniere – vedi caso francesi – dal ’700 in poi. Iniettato nel dibattito storiografico preesistente, il germe nazionalista si assicura così una vitalità lunghissima, fino alle sfide Ojetti-Venturi degli anni Venti e oltre. Ciò detto, rimane sorprendente il confronto sostenuto, con il fermento bellico, da una rivista informativa, modestamente militante, come “Pagine d’arte” (dal 1914 raccordata alla “Rassegna d’arte antica e moderna”). Largamente influenzata da uno dei suoi redattori, Raffaello Giolli, la testata tematizza con chiarezza le provocazioni ideologiche della guerra: si fa interventista attorno al bombardamento di Reims, ma ne trae anche l’imperativo a un’equa attività conservativa per i tempi di pace; incrementa il proprio apparato iconografico su modello propagandistico, ma pubblica anche la produzione artistica recente – sia pur di soggetto militare – degli stranieri. Insomma cerca, per artisti e intellettuali, un ruolo plausibile dentro la crisi. E qui, ben più che altrove, l’osmosi fra crismi identitari e derive nazionaliste è fortissima e, spesso, proficua. Ne uscirà un modello di militanza intriso di creatività, di interventismo culturale e sociale. Opzione critica chiusa già nel 1920, la cui anima chiara, Raffaello Giolli appunto, si opporrà alla nostra deriva totalitaria e nazionalista lungamente, sino a morirne.Pubblicazioni consigliate
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