Si tratta della relazione, corredata delle note essenziali, tenuta al Convegno «Profili penali dell’usura nell’esercizio dell’attività bancaria», svoltosi a Padova, il 14 marzo 2008. La ricerca prende le mosse dalle origini storiche del delitto di usura ed individua nel diritto intermedio le radici – morali e comunque metagiuridiche – di un pre-giudizio di gravità da cui ancor oggi non riesce ad affrancarsi, nonostante la l. 108/1996 abbia completamente trasfigurato la fisionomia del reato (re)introdotto dal Codice Rocco che rievocava, sia pur in chiave “storicizzata”, il medievale «divieto delle usure», con significative ripercussioni anche nella ricostruzione giurisprudenziale della tipicità. Del resto, la prospettiva comparatistica conferma che l’usura integra il paradigma dei mala quia prohibita, cioè dei reati puniti in ragione delle concezioni economiche e morali dominanti in un dato contesto storico-sociale. Non sfugge, invero, come, laddove prevede una modalità “presunta” d’usura, la riforma abbia surretiziamente piegato lo strumento penale ad una funzione di controllo del mercato del credito, sia pur nell’ambito di una strategia differenziata di contrasto alla penetrazione della criminalità organizzata nell’economica lecita, secondo una linea inaugurata con il d.l. 306/1992. Eppure, mentre l’offensività dell’illecito è degradata al pericolo presunto, se non annullata nella mera trasgressione di un divieto, le pene sono state fortemente inasprite, in funzione eminentemente “simbolica” – da ultimo, con la “scusa” della riforma della prescrizione, dalla l. 251/2005: per effetto delle aggravanti ad effetto speciale, di pressoché automatica applicazione in caso usura nell’esercizio dell’attività bancaria, la pena detentiva può arrivare a 20 anni di reclusione – e a parte rimane il sistema sanzionatorio complementare. Nella stessa prospettiva si inquadra l’esclusione del delitto di usura dal beneficio dell’indulto da parte della l. 241/2006. Emerge così il vizio endemico dell’attuale normativa penale dell’usura, ossia un’indebita assimilazione, in un’unica indifferenziata fattispecie, di fenomeni irriducibili dal punto di vista sociale ed economico: l’usura “tradizionale”, specie quella della criminalità organizzata, e l’usura c.d. dei “colletti bianchi”. In definitiva, se è vero che assurge a paradigma delle interconnessioni tra economia legale, criminalità economica e criminalità organizzata, l’usura vince anche in banca solo con sanzioni informate ai principi di sussidiarietà ed extrema ratio e, ancor prima, attraverso misure di prevenzione sociale. D’altronde è così che si ricompone il contrasto, che investe in generale il diritto penale contemporaneo e di cui evidentemente risente la disciplina dell’usura, tra diritto penale “interventista” e diritto penale “neo-liberista”.

Il delitto di usura "bancaria" come figura "grave" esclusa da benefici indulgenziali. Profili critici

BORSARI, RICCARDO
2009

Abstract

Si tratta della relazione, corredata delle note essenziali, tenuta al Convegno «Profili penali dell’usura nell’esercizio dell’attività bancaria», svoltosi a Padova, il 14 marzo 2008. La ricerca prende le mosse dalle origini storiche del delitto di usura ed individua nel diritto intermedio le radici – morali e comunque metagiuridiche – di un pre-giudizio di gravità da cui ancor oggi non riesce ad affrancarsi, nonostante la l. 108/1996 abbia completamente trasfigurato la fisionomia del reato (re)introdotto dal Codice Rocco che rievocava, sia pur in chiave “storicizzata”, il medievale «divieto delle usure», con significative ripercussioni anche nella ricostruzione giurisprudenziale della tipicità. Del resto, la prospettiva comparatistica conferma che l’usura integra il paradigma dei mala quia prohibita, cioè dei reati puniti in ragione delle concezioni economiche e morali dominanti in un dato contesto storico-sociale. Non sfugge, invero, come, laddove prevede una modalità “presunta” d’usura, la riforma abbia surretiziamente piegato lo strumento penale ad una funzione di controllo del mercato del credito, sia pur nell’ambito di una strategia differenziata di contrasto alla penetrazione della criminalità organizzata nell’economica lecita, secondo una linea inaugurata con il d.l. 306/1992. Eppure, mentre l’offensività dell’illecito è degradata al pericolo presunto, se non annullata nella mera trasgressione di un divieto, le pene sono state fortemente inasprite, in funzione eminentemente “simbolica” – da ultimo, con la “scusa” della riforma della prescrizione, dalla l. 251/2005: per effetto delle aggravanti ad effetto speciale, di pressoché automatica applicazione in caso usura nell’esercizio dell’attività bancaria, la pena detentiva può arrivare a 20 anni di reclusione – e a parte rimane il sistema sanzionatorio complementare. Nella stessa prospettiva si inquadra l’esclusione del delitto di usura dal beneficio dell’indulto da parte della l. 241/2006. Emerge così il vizio endemico dell’attuale normativa penale dell’usura, ossia un’indebita assimilazione, in un’unica indifferenziata fattispecie, di fenomeni irriducibili dal punto di vista sociale ed economico: l’usura “tradizionale”, specie quella della criminalità organizzata, e l’usura c.d. dei “colletti bianchi”. In definitiva, se è vero che assurge a paradigma delle interconnessioni tra economia legale, criminalità economica e criminalità organizzata, l’usura vince anche in banca solo con sanzioni informate ai principi di sussidiarietà ed extrema ratio e, ancor prima, attraverso misure di prevenzione sociale. D’altronde è così che si ricompone il contrasto, che investe in generale il diritto penale contemporaneo e di cui evidentemente risente la disciplina dell’usura, tra diritto penale “interventista” e diritto penale “neo-liberista”.
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