Nonostante si faccia un gran parlare di salvaguardia della biodiversità, si dimentica spesso che la prima, principale causa che ha sistematicamente minato le risorse del nostro pianeta in termini di biodiversità è proprio l’agricoltura. Da 8000 anni a questa parte enormi estensioni di terre emerse sono state riservate a solo poche specie vegetali comprimendo o eliminando del tutto migliaia di altre specie, e non solo vegetali, che in quelle aree avevano sviluppato il loro appropriato habitat. È vero poi che l’agricoltura moderna ha fortemente accelerato questo processo sacrificando in modo esponenziale l’ambiente alla causa della produttività. D’altra parte, l’aumento della popolazione mondiale ha fortemente sollecitato la ricerca di strategie agronomiche che fossero in grado di sostenerla. Nel secolo scorso i clamorosi aumenti delle rese produttive agricole sono stati conseguiti grazie al crescente uso dei fertilizzanti e, successivamente, di altri composti di origine chimica che fossero in grado di proteggere le piante dagli attacchi di batteri, funghi, nematodi e insetti patogeni e di eliminare quelle specie vegetali indesiderate. La natura chimica stessa di questi composti, legata alla necessità che essi sortiscano un drastico effetto su tutte quelle specie da controllare o eliminare, li ha via via resi sempre più complessi, tossici e recalcitranti. Buona parte di essi permane nell’ambiente con residui non-degradabili che di conseguenza hanno un impatto negativo facilmente intuibile e che in molti casi ha richiesto successivi interventi di decontaminazione. Ma anche l’uso di pesticidi prontamente metabolizzabili può essere deleterio, poiché essi presentano spesso un ampio spettro d’azione che li rende nocivi anche nei confronti di specie viventi non dannose o addirittura nei confronti degli antagonisti naturali dell’organismo bersaglio. Da non sottovalutare, inoltre, che molte popolazioni di microrganismi, insetti e piante possono acquisire resistenza verso certi composti nocivi, specialmente in un’agricoltura intensiva nella quale l’eccessivo impiego di formulati chimici impone all’ecosistema una enorme pressione selettiva. Di conseguenza, lo sviluppo di resistenze e il successivo ritorno del patogeno hanno in passato indotto gli operatori agricoli ad aumentare le dosi e/o la frequenza di applicazione e le industrie chimiche a ricercare nuove generazioni di pesticidi. Naturalmente, le conoscenze scientifiche odierne di chimica organica consentono la creazione di nuove molecole adatte allo scopo, ma i costi tendono ad aumentare per coprire gli investimenti nella ricerca e le regole per la registrazione dei nuovi prodotti divengono sempre più rigorose. Le industrie chimiche non sono dunque più disposte a investire cifre sempre maggiori per mercati che sono destinati a restringersi.
I microrganismi nella lotta biologica
CASELLA, SERGIO
2008
Abstract
Nonostante si faccia un gran parlare di salvaguardia della biodiversità, si dimentica spesso che la prima, principale causa che ha sistematicamente minato le risorse del nostro pianeta in termini di biodiversità è proprio l’agricoltura. Da 8000 anni a questa parte enormi estensioni di terre emerse sono state riservate a solo poche specie vegetali comprimendo o eliminando del tutto migliaia di altre specie, e non solo vegetali, che in quelle aree avevano sviluppato il loro appropriato habitat. È vero poi che l’agricoltura moderna ha fortemente accelerato questo processo sacrificando in modo esponenziale l’ambiente alla causa della produttività. D’altra parte, l’aumento della popolazione mondiale ha fortemente sollecitato la ricerca di strategie agronomiche che fossero in grado di sostenerla. Nel secolo scorso i clamorosi aumenti delle rese produttive agricole sono stati conseguiti grazie al crescente uso dei fertilizzanti e, successivamente, di altri composti di origine chimica che fossero in grado di proteggere le piante dagli attacchi di batteri, funghi, nematodi e insetti patogeni e di eliminare quelle specie vegetali indesiderate. La natura chimica stessa di questi composti, legata alla necessità che essi sortiscano un drastico effetto su tutte quelle specie da controllare o eliminare, li ha via via resi sempre più complessi, tossici e recalcitranti. Buona parte di essi permane nell’ambiente con residui non-degradabili che di conseguenza hanno un impatto negativo facilmente intuibile e che in molti casi ha richiesto successivi interventi di decontaminazione. Ma anche l’uso di pesticidi prontamente metabolizzabili può essere deleterio, poiché essi presentano spesso un ampio spettro d’azione che li rende nocivi anche nei confronti di specie viventi non dannose o addirittura nei confronti degli antagonisti naturali dell’organismo bersaglio. Da non sottovalutare, inoltre, che molte popolazioni di microrganismi, insetti e piante possono acquisire resistenza verso certi composti nocivi, specialmente in un’agricoltura intensiva nella quale l’eccessivo impiego di formulati chimici impone all’ecosistema una enorme pressione selettiva. Di conseguenza, lo sviluppo di resistenze e il successivo ritorno del patogeno hanno in passato indotto gli operatori agricoli ad aumentare le dosi e/o la frequenza di applicazione e le industrie chimiche a ricercare nuove generazioni di pesticidi. Naturalmente, le conoscenze scientifiche odierne di chimica organica consentono la creazione di nuove molecole adatte allo scopo, ma i costi tendono ad aumentare per coprire gli investimenti nella ricerca e le regole per la registrazione dei nuovi prodotti divengono sempre più rigorose. Le industrie chimiche non sono dunque più disposte a investire cifre sempre maggiori per mercati che sono destinati a restringersi.Pubblicazioni consigliate
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