La disciplina della proprietà – cioè dell’istituto che regola le forme del dominio sui beni (mobili o immobili, materiali o immateriali) – riflette, nelle sue strutture e nelle sue articolazioni, il sistema dei rapporti economici e sociali caratteristico di ciascuna epoca storica. Nella Costituzione italiana la proprietà è disciplinata all’art. 42, all’interno di un titolo, quello dei «rapporti economici», dove nessuna situazione è formalmente assistita dall’attributo dell’«inviolabilità». Secondo alcuni, ciò sarebbe il frutto di una scelta tendente ad assicurare la prevalenza dell’interesse sociale su quello individuale; scelta rafforzata dalla presenza nella disposizione di una clausola generale relativa alla «funzione sociale» del diritto di proprietà: il che farebbe ritenere che nella scala delle tutele costituzionali a tale diritto sia stato assegnato un posto inferiore a quello di qualsiasi altro diritto fondamentale. Secondo altri, invece, esso sarebbe comunque riconducibile ai «diritti inviolabili dell’uomo» di cui all’art. 2 Cost., rientrando appieno nel loro regime di garanzia, non diversamente da quanto avviene nel diritto internazionale ed europeo, nei quali la proprietà è generalmente considerata intangibile e compresa tra i diritti fondamentali della persona, fatto salvo il potere degli Stati di disciplinarla in modo conforme all’interesse generale. L’art. 42 co. 1 dice che la proprietà è «pubblica o privata» e può appartenere «allo Stato, ad enti o a privati». Si ripropone così anche a livello costituzionale quella molteplicità degli statuti proprietari, presente nella legislazione ordinaria sia precedente sia successiva alla Costituzione, che ha indotto la dottrina privatistica a concludere che la parola «proprietà» non ha oggi, se mai ha avuto, un significato univoco. Circa la formula contenuta nella prima parte della disposizione, si è detto che essa intenderebbe affermare una dignità della proprietà pubblica analoga a quella della proprietà privata. Per effetto di tale previsione, il sistema costituzionale italiano sarebbe caratterizzato dalla necessaria compresenza dei due regimi proprietari, senza pregiudicare il modo in cui ciascuno di essi viene internamente articolato: nulla dice infatti la Costituzione circa le dimensioni e le caratteristiche dei due settori, dovendosi ritenere che il legislatore sia libero di definirne l’ampiezza e di configurare secondo schemi diversi la regole dell’appartenenza pubblica e privata dei beni. Nello stesso sembra andare anche il diritto europeo (art. 295 TCE), in cui si afferma il principio di indifferenza dell’Unione rispetto al regime di proprietà esistente negli Stati membri. Quanto alla disciplina della proprietà privata stabilita dal co. 2, l’opinione prevalente in dottrina e in giurisprudenza è che il legislatore goda di un’ampia discrezionalità nella restrizione delle facoltà del proprietario in forza della clausola, dal contenuto sostanzialmente indeterminato, della «funzione sociale». Non si tratterebbe peraltro di una discrezionalità assoluta, essendo le sue scelte sindacabili dalla Corte costituzionale sotto il profilo della “non-irragionevolezza” degli interventi limitativi o conformativi della proprietà operati mediante il ricorso a tale clausola e fermo restando, in ogni caso, il necessario rispetto del “contenuto essenziale” del diritto, inteso come soglia di “operatività minima” dello stesso nel bilanciamento con altri interessi costituzionali. Con specifico riferimento al tema dell’espropriazione di cui al co. 3, si registra infine una crescente attenzione della giurisprudenza costituzionale alla tutela dei proprietari privati nei confronti degli interventi autoritativi della pubblica amministrazione, sia nell’astratta individuazione delle fattispecie espropriative sia nella concreta determinazione dell’indennizzo, in linea con i principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Articolo 42 della Costituzione
GIAMPIERETTI, MARCO
2008
Abstract
La disciplina della proprietà – cioè dell’istituto che regola le forme del dominio sui beni (mobili o immobili, materiali o immateriali) – riflette, nelle sue strutture e nelle sue articolazioni, il sistema dei rapporti economici e sociali caratteristico di ciascuna epoca storica. Nella Costituzione italiana la proprietà è disciplinata all’art. 42, all’interno di un titolo, quello dei «rapporti economici», dove nessuna situazione è formalmente assistita dall’attributo dell’«inviolabilità». Secondo alcuni, ciò sarebbe il frutto di una scelta tendente ad assicurare la prevalenza dell’interesse sociale su quello individuale; scelta rafforzata dalla presenza nella disposizione di una clausola generale relativa alla «funzione sociale» del diritto di proprietà: il che farebbe ritenere che nella scala delle tutele costituzionali a tale diritto sia stato assegnato un posto inferiore a quello di qualsiasi altro diritto fondamentale. Secondo altri, invece, esso sarebbe comunque riconducibile ai «diritti inviolabili dell’uomo» di cui all’art. 2 Cost., rientrando appieno nel loro regime di garanzia, non diversamente da quanto avviene nel diritto internazionale ed europeo, nei quali la proprietà è generalmente considerata intangibile e compresa tra i diritti fondamentali della persona, fatto salvo il potere degli Stati di disciplinarla in modo conforme all’interesse generale. L’art. 42 co. 1 dice che la proprietà è «pubblica o privata» e può appartenere «allo Stato, ad enti o a privati». Si ripropone così anche a livello costituzionale quella molteplicità degli statuti proprietari, presente nella legislazione ordinaria sia precedente sia successiva alla Costituzione, che ha indotto la dottrina privatistica a concludere che la parola «proprietà» non ha oggi, se mai ha avuto, un significato univoco. Circa la formula contenuta nella prima parte della disposizione, si è detto che essa intenderebbe affermare una dignità della proprietà pubblica analoga a quella della proprietà privata. Per effetto di tale previsione, il sistema costituzionale italiano sarebbe caratterizzato dalla necessaria compresenza dei due regimi proprietari, senza pregiudicare il modo in cui ciascuno di essi viene internamente articolato: nulla dice infatti la Costituzione circa le dimensioni e le caratteristiche dei due settori, dovendosi ritenere che il legislatore sia libero di definirne l’ampiezza e di configurare secondo schemi diversi la regole dell’appartenenza pubblica e privata dei beni. Nello stesso sembra andare anche il diritto europeo (art. 295 TCE), in cui si afferma il principio di indifferenza dell’Unione rispetto al regime di proprietà esistente negli Stati membri. Quanto alla disciplina della proprietà privata stabilita dal co. 2, l’opinione prevalente in dottrina e in giurisprudenza è che il legislatore goda di un’ampia discrezionalità nella restrizione delle facoltà del proprietario in forza della clausola, dal contenuto sostanzialmente indeterminato, della «funzione sociale». Non si tratterebbe peraltro di una discrezionalità assoluta, essendo le sue scelte sindacabili dalla Corte costituzionale sotto il profilo della “non-irragionevolezza” degli interventi limitativi o conformativi della proprietà operati mediante il ricorso a tale clausola e fermo restando, in ogni caso, il necessario rispetto del “contenuto essenziale” del diritto, inteso come soglia di “operatività minima” dello stesso nel bilanciamento con altri interessi costituzionali. Con specifico riferimento al tema dell’espropriazione di cui al co. 3, si registra infine una crescente attenzione della giurisprudenza costituzionale alla tutela dei proprietari privati nei confronti degli interventi autoritativi della pubblica amministrazione, sia nell’astratta individuazione delle fattispecie espropriative sia nella concreta determinazione dell’indennizzo, in linea con i principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.Pubblicazioni consigliate
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