L’art. 43 Cost. si riferisce al fenomeno della pubblicizzazione (o collettivizzazione) delle imprese, che comprende tutti i casi di riserva originaria e di trasferimento, coattivo e non coattivo, della proprietà o della gestione economica delle stesse a favore di un ente pubblico o di una collettività: esso si pone quindi in diretto rapporto con gli artt. 41 e 42, ossia con lo “statuto” costituzionale dell’impresa, da un lato, e con quello della proprietà, dall’altro. Dal confronto fra tali disposizioni emerge una maggiore protezione costituzionale dell’impresa rispetto alla proprietà, data dalla più rigorosa disciplina dell’art. 43 rispetto a quella dell’art. 42: mentre il secondo si limita a rinviare alla legge ordinaria per l’individuazione dei casi in cui la proprietà privata può essere espropriata per motivi di interesse generale, il primo precisa che l’espropriazione delle imprese o la riserva delle relative attività possono avvenire solo a certe condizioni (la mancata osservanza delle quali si traduce in un vizio di legittimità dell’atto legislativo, sindacabile dalla Corte costituzionale); inoltre, mentre la proprietà privata può, nei casi previsti dalla legge, essere espropriata per atto amministrativo, le collettivizzazioni di cui all’art. 43 possono essere disposte solo per legge. Nel complesso, tale norma appare destinata a completare il quadro degli interventi pubblici nell’economia con due strumenti di natura eccezionale – la riserva originaria, consistente nella creazione di un monopolio legale pubblico in un certo settore o in una parte di esso, e il trasferimento di imprese già operanti mediante espropriazione indennizzata –, dovendosi escludere che con essa la Costituzione abbia inteso incamminarsi sulla strada del collettivismo. Negli ultimi decenni la possibilità di ricorrere agli strumenti previsti dall’art. 43 si è notevolmente ridotta per effetto del diritto europeo. Nonostante il principio di indifferenza rispetto al regime di proprietà esistente negli Stati membri e quello della parità di trattamento tra imprese pubbliche e private, ricavabili dai Trattati e dal diritto derivato, si ritiene infatti che l’attribuzione e/o il mantenimento di diritti speciali o esclusivi a favore di alcune imprese sia incompatibile con un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza e debba pertanto limitarsi ai soli casi necessari per lo svolgimento di specifici compiti di servizio pubblico. Sotto l’impulso delle istituzioni comunitarie, nei primi anni Novanta del secolo scorso l’Italia ha quindi avviato un intenso programma di privatizzazioni e liberalizzazioni che ha portato alla limitazione e, in molti casi, all’integrale soppressione dei precedenti regimi di riserva e monopolio legale e al conseguente assoggettamento dei soggetti ex monopolisti alle regole della concorrenza. Il processo di privatizzazione delle grandi imprese pubbliche operanti nei settori industriali e finanziari si è svolto in due fasi. La prima è consistita nella trasformazione, con varie modalità, delle imprese-organo (aziende e amministrazioni autonome) e delle imprese-ente (enti pubblici operativi e enti pubblici di gestione o holding) in società per azioni a totale partecipazione pubblica (c.d. “privatizzazione formale”). La seconda è consistita nella dismissione totale o parziale, anche in questo caso con varie modalità, dei pacchetti azionari detenuti dallo Stato nelle società partecipate (c.d. “privatizzazione sostanziale”) e nella conseguente cessione, liquidazione o soppressione degli enti pubblici economici precedentemente incaricati di gestirle. Nei servizi pubblici c.d. “a rete” (es. trasporto ferroviario, telecomunicazioni, fonti di energia) si è proceduto, sia pure con un certo ritardo e con significative eccezioni, alla separazione societaria tra gestore della rete, operante in regime di monopolio naturale, e gestore del servizio, operante in regime di concorrenza, per quanto limitata. Uno scenario in parte analogo si è delineato nel campo dei servizi pubblici locali, per effetto di una serie di interventi legislativi e regolamentari che hanno imposto agli enti locali di affidare a soggetti esterni all’amministrazione – in forma di società a capitale pubblico, privato o misto, costituite anche mediante trasformazione delle aziende speciali – la gestione dei servizi di rilevanza economica (c.d. “esternalizzazione”), nel rispetto delle norme interne e comunitarie a tutela della concorrenza e fermo restando il divieto di cedere a privati la proprietà degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni destinati al loro esercizio.
Articolo 43 della Costituzione
GIAMPIERETTI, MARCO
2008
Abstract
L’art. 43 Cost. si riferisce al fenomeno della pubblicizzazione (o collettivizzazione) delle imprese, che comprende tutti i casi di riserva originaria e di trasferimento, coattivo e non coattivo, della proprietà o della gestione economica delle stesse a favore di un ente pubblico o di una collettività: esso si pone quindi in diretto rapporto con gli artt. 41 e 42, ossia con lo “statuto” costituzionale dell’impresa, da un lato, e con quello della proprietà, dall’altro. Dal confronto fra tali disposizioni emerge una maggiore protezione costituzionale dell’impresa rispetto alla proprietà, data dalla più rigorosa disciplina dell’art. 43 rispetto a quella dell’art. 42: mentre il secondo si limita a rinviare alla legge ordinaria per l’individuazione dei casi in cui la proprietà privata può essere espropriata per motivi di interesse generale, il primo precisa che l’espropriazione delle imprese o la riserva delle relative attività possono avvenire solo a certe condizioni (la mancata osservanza delle quali si traduce in un vizio di legittimità dell’atto legislativo, sindacabile dalla Corte costituzionale); inoltre, mentre la proprietà privata può, nei casi previsti dalla legge, essere espropriata per atto amministrativo, le collettivizzazioni di cui all’art. 43 possono essere disposte solo per legge. Nel complesso, tale norma appare destinata a completare il quadro degli interventi pubblici nell’economia con due strumenti di natura eccezionale – la riserva originaria, consistente nella creazione di un monopolio legale pubblico in un certo settore o in una parte di esso, e il trasferimento di imprese già operanti mediante espropriazione indennizzata –, dovendosi escludere che con essa la Costituzione abbia inteso incamminarsi sulla strada del collettivismo. Negli ultimi decenni la possibilità di ricorrere agli strumenti previsti dall’art. 43 si è notevolmente ridotta per effetto del diritto europeo. Nonostante il principio di indifferenza rispetto al regime di proprietà esistente negli Stati membri e quello della parità di trattamento tra imprese pubbliche e private, ricavabili dai Trattati e dal diritto derivato, si ritiene infatti che l’attribuzione e/o il mantenimento di diritti speciali o esclusivi a favore di alcune imprese sia incompatibile con un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza e debba pertanto limitarsi ai soli casi necessari per lo svolgimento di specifici compiti di servizio pubblico. Sotto l’impulso delle istituzioni comunitarie, nei primi anni Novanta del secolo scorso l’Italia ha quindi avviato un intenso programma di privatizzazioni e liberalizzazioni che ha portato alla limitazione e, in molti casi, all’integrale soppressione dei precedenti regimi di riserva e monopolio legale e al conseguente assoggettamento dei soggetti ex monopolisti alle regole della concorrenza. Il processo di privatizzazione delle grandi imprese pubbliche operanti nei settori industriali e finanziari si è svolto in due fasi. La prima è consistita nella trasformazione, con varie modalità, delle imprese-organo (aziende e amministrazioni autonome) e delle imprese-ente (enti pubblici operativi e enti pubblici di gestione o holding) in società per azioni a totale partecipazione pubblica (c.d. “privatizzazione formale”). La seconda è consistita nella dismissione totale o parziale, anche in questo caso con varie modalità, dei pacchetti azionari detenuti dallo Stato nelle società partecipate (c.d. “privatizzazione sostanziale”) e nella conseguente cessione, liquidazione o soppressione degli enti pubblici economici precedentemente incaricati di gestirle. Nei servizi pubblici c.d. “a rete” (es. trasporto ferroviario, telecomunicazioni, fonti di energia) si è proceduto, sia pure con un certo ritardo e con significative eccezioni, alla separazione societaria tra gestore della rete, operante in regime di monopolio naturale, e gestore del servizio, operante in regime di concorrenza, per quanto limitata. Uno scenario in parte analogo si è delineato nel campo dei servizi pubblici locali, per effetto di una serie di interventi legislativi e regolamentari che hanno imposto agli enti locali di affidare a soggetti esterni all’amministrazione – in forma di società a capitale pubblico, privato o misto, costituite anche mediante trasformazione delle aziende speciali – la gestione dei servizi di rilevanza economica (c.d. “esternalizzazione”), nel rispetto delle norme interne e comunitarie a tutela della concorrenza e fermo restando il divieto di cedere a privati la proprietà degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni destinati al loro esercizio.Pubblicazioni consigliate
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