Nell’articolo si riflette criticamente sul progetto di privatizzazione della Rai delineato dall’art. 21 della l. n. 112/2004 (c.d. “legge Gasparri”): un progetto che si sarebbe dovuto sviluppare in due fasi successive ma che, forse anche a causa dei suoi stessi limiti, è rimasto in gran parte inattuato. Secondo i suoi sostenitori esso avrebbe dovuto consentire la realizzazione di almeno tre obiettivi: migliorare la gestione della società, rendendo più agili i processi decisionali e sottraendola al controllo dei partiti; aumentare l’efficienza e la competitività dell’impresa, riducendo i costi e migliorando la qualità dei prodotti; recuperare risorse finanziarie utili al risanamento del bilancio dello Stato. L’impressione dell’A. è che si tratti invece di una soluzione per molti versi illegittima e, comunque, inutile e pericolosa. Un primo profilo di illegittimità appare ravvisabile nella mancanza di una disposizione che limiti il numero massimo di azioni trasferibili ai privati e riservi allo Stato o ad altri enti pubblici il pacchetto di controllo della società. La necessità che la concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, pur essendo organizzata nella forma privatistica della società di capitali, resti totalmente o prevalentemente in mano pubblica è stata infatti più volte affermata dalla Corte costituzionale, nella convinzione, condivisa dalla maggior parte della dottrina, che nel nostro sistema la gestione di tale servizio non possa essere affidata in esclusiva a un soggetto privato. Questo perché chi lo esercita è tenuto a operare “non come uno qualsiasi dei soggetti del limitato pluralismo degli emittenti, nel rispetto, da tutti dovuto, dei principi generali del sistema bensì svolgendo una funzione specifica per il miglior soddisfacimento del diritto dei cittadini all’informazione e per la diffusione della cultura, col fine di ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese” (sent. n. 284/2002). Ulteriori dubbi di legittimità riguardano il complessivo assetto che il sistema radiotelevisivo verrebbe ad assumere in conseguenza della privatizzazione della Rai e le distorsioni della concorrenza che potrebbero derivarne. Quanto ai vantaggi che essa dovrebbe comportare in termini di aumento dell’efficienza e competitività della concessionaria pubblica e di riduzione della sua dipendenza dal potere politico, essi non appaiono affatto automatici e sono anzi messi rischio da altre disposizioni della stessa legge e del d.lgs. n. 177/2005 (Testo unico della radiotelevisione). In realtà, se il legislatore volesse rilanciare davvero il ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo potrebbe ricorrere ad altri, più efficaci strumenti. Primo fra tutti, un significativo aumento del canone che permettesse alla concessionaria di ridurre la propria dipendenza dalla pubblicità, fornendole i mezzi necessari per svolgere adeguatamente la sua missione. Particolarmente utile sarebbe poi l’introduzione di una norma che le imponesse di diversificare la programmazione delle sue tre reti, anche mediante una diversificazione delle loro fonti di finanziamento. Per garantirle una maggiore autonomia dal potere politico si potrebbe pensare infine di affidare la nomina dei suoi organi di vertice a una pluralità di soggetti, espressione dell’intera società e non solo del ristretto circuito Governo-Parlamento, così come avviene anche in altri Paesi. Nel complesso, si ritiene che le soluzioni prefigurate dalla legge Gasparri – consentendo l’integrale privatizzazione della Rai senza prevedere misure idonee a garantirne l’indipendenza da qualsiasi potere (politico e/o economico) e a migliorare la qualità dei suoi programmi – non solo non risolvano gli attuali problemi della televisione pubblica italiana, ma rischino addirittura di aggravarli.

Questioni in tema di privatizzazione della RAI

GIAMPIERETTI, MARCO
2007

Abstract

Nell’articolo si riflette criticamente sul progetto di privatizzazione della Rai delineato dall’art. 21 della l. n. 112/2004 (c.d. “legge Gasparri”): un progetto che si sarebbe dovuto sviluppare in due fasi successive ma che, forse anche a causa dei suoi stessi limiti, è rimasto in gran parte inattuato. Secondo i suoi sostenitori esso avrebbe dovuto consentire la realizzazione di almeno tre obiettivi: migliorare la gestione della società, rendendo più agili i processi decisionali e sottraendola al controllo dei partiti; aumentare l’efficienza e la competitività dell’impresa, riducendo i costi e migliorando la qualità dei prodotti; recuperare risorse finanziarie utili al risanamento del bilancio dello Stato. L’impressione dell’A. è che si tratti invece di una soluzione per molti versi illegittima e, comunque, inutile e pericolosa. Un primo profilo di illegittimità appare ravvisabile nella mancanza di una disposizione che limiti il numero massimo di azioni trasferibili ai privati e riservi allo Stato o ad altri enti pubblici il pacchetto di controllo della società. La necessità che la concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, pur essendo organizzata nella forma privatistica della società di capitali, resti totalmente o prevalentemente in mano pubblica è stata infatti più volte affermata dalla Corte costituzionale, nella convinzione, condivisa dalla maggior parte della dottrina, che nel nostro sistema la gestione di tale servizio non possa essere affidata in esclusiva a un soggetto privato. Questo perché chi lo esercita è tenuto a operare “non come uno qualsiasi dei soggetti del limitato pluralismo degli emittenti, nel rispetto, da tutti dovuto, dei principi generali del sistema bensì svolgendo una funzione specifica per il miglior soddisfacimento del diritto dei cittadini all’informazione e per la diffusione della cultura, col fine di ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese” (sent. n. 284/2002). Ulteriori dubbi di legittimità riguardano il complessivo assetto che il sistema radiotelevisivo verrebbe ad assumere in conseguenza della privatizzazione della Rai e le distorsioni della concorrenza che potrebbero derivarne. Quanto ai vantaggi che essa dovrebbe comportare in termini di aumento dell’efficienza e competitività della concessionaria pubblica e di riduzione della sua dipendenza dal potere politico, essi non appaiono affatto automatici e sono anzi messi rischio da altre disposizioni della stessa legge e del d.lgs. n. 177/2005 (Testo unico della radiotelevisione). In realtà, se il legislatore volesse rilanciare davvero il ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo potrebbe ricorrere ad altri, più efficaci strumenti. Primo fra tutti, un significativo aumento del canone che permettesse alla concessionaria di ridurre la propria dipendenza dalla pubblicità, fornendole i mezzi necessari per svolgere adeguatamente la sua missione. Particolarmente utile sarebbe poi l’introduzione di una norma che le imponesse di diversificare la programmazione delle sue tre reti, anche mediante una diversificazione delle loro fonti di finanziamento. Per garantirle una maggiore autonomia dal potere politico si potrebbe pensare infine di affidare la nomina dei suoi organi di vertice a una pluralità di soggetti, espressione dell’intera società e non solo del ristretto circuito Governo-Parlamento, così come avviene anche in altri Paesi. Nel complesso, si ritiene che le soluzioni prefigurate dalla legge Gasparri – consentendo l’integrale privatizzazione della Rai senza prevedere misure idonee a garantirne l’indipendenza da qualsiasi potere (politico e/o economico) e a migliorare la qualità dei suoi programmi – non solo non risolvano gli attuali problemi della televisione pubblica italiana, ma rischino addirittura di aggravarli.
2007
Il pluralismo radiotelevisivo tra pubblico e privato
9788813272180
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