Quale fu l’atteggiamento della Confindustria nei riguardi dell’European recovery program (Erp)? Come è noto, il piano Marshall ha rappresentato non solo un programma di aiuti economici diretto a facilitare la ripresa economica dell’Europa dopo il secondo conflitto mondiale, ma anche, e soprattutto, il tentativo di esportare nel vecchio continente alcuni dei tratti fondanti del modello economico-sociale statunitense. Tale tentativo si declinava nell’Erp lungo due direttrici: da un lato vi era la proposta del modello della produzione e del consumo di massa, dall’altro quella della creazione di un grande mercato senza barriere. Il cuore del programma di aiuti statunitense era rappresentato da un approccio ai problemi della crescita economica e della redistribuzione del reddito nell’ambito di una democrazia di massa che è diventato celebre attraverso la definizione proposta da Charles Maier di politics of productivity. Si trattava di evitare il conflitto di classe all’interno delle società industriali grazie ad un aumento delle dimensioni della torta da dividere, ottenendo, così, fette più grandi da distribuire tra capitale e lavoro, pur lasciandone tendenzialmente inalterata la distribuzione percentuale. Era questa la ricetta che aveva trovato applicazione sul piano interno statunitense e che l’amministrazione Truman, o meglio i settori di essa più legati alla “coalizione del New Deal”, aveva intenzione di esportare nel vecchio continente indirizzandone la ricostruzione economica verso i territori del fordismo: produzione di massa e alti salari. L’aumento della ricchezza e la diffusione del benessere, da conseguire grazie all’applicazione delle ricette produttivistiche, avrebbero prosciugato il terreno di coltura degli estremismi politici. Il saggio si concentra sulla reazione della Confindustria al tentativo di trasposizione del modello produttivo di oltreoceano. Il testo si sofferma su due snodi decisivi nel delineare le posizioni dell’industria italiana: il primo, la fase di avvio dell’Erp, nel corso della quale vennero definendosi posizioni che rimarranno alla base del punto di vista confindustriale negli anni seguenti; il secondo, la partecipazione di una folta delegazione italiana alla conferenza internazionale degli industriali di New York, a fine 1951, che rappresenta un buon case study circa il confronto tra statunitensi e italiani sulla politica della produttività. In definitiva, i vertici confindustriali svolsero un’azione di freno rispetto alle spinte modernizzatrici provenienti dall’esterno. Nel contesto europeo del secondo dopoguerra in cui si assisteva al confronto-scontro tra americanismo e riformismo, l’azione del gruppo dirigente confindustriale, sembrava voler disegnare una sorta di terza via italiana tra la politica della crescita propugnata dagli Stati Uniti e la politica del pieno impiego prevalente in Europa, così rappresentando un soggetto fondamentale nella definizione e messa a punto di quell’«ibrido» tra aspirazioni ad un’economia aperta ed eredità degli anni Trenta che caratterizzò la gestione italiana degli aiuti.

Americanismo e privatismo. La Confindustria e il piano Marshall

PETRINI, FRANCESCO
2007

Abstract

Quale fu l’atteggiamento della Confindustria nei riguardi dell’European recovery program (Erp)? Come è noto, il piano Marshall ha rappresentato non solo un programma di aiuti economici diretto a facilitare la ripresa economica dell’Europa dopo il secondo conflitto mondiale, ma anche, e soprattutto, il tentativo di esportare nel vecchio continente alcuni dei tratti fondanti del modello economico-sociale statunitense. Tale tentativo si declinava nell’Erp lungo due direttrici: da un lato vi era la proposta del modello della produzione e del consumo di massa, dall’altro quella della creazione di un grande mercato senza barriere. Il cuore del programma di aiuti statunitense era rappresentato da un approccio ai problemi della crescita economica e della redistribuzione del reddito nell’ambito di una democrazia di massa che è diventato celebre attraverso la definizione proposta da Charles Maier di politics of productivity. Si trattava di evitare il conflitto di classe all’interno delle società industriali grazie ad un aumento delle dimensioni della torta da dividere, ottenendo, così, fette più grandi da distribuire tra capitale e lavoro, pur lasciandone tendenzialmente inalterata la distribuzione percentuale. Era questa la ricetta che aveva trovato applicazione sul piano interno statunitense e che l’amministrazione Truman, o meglio i settori di essa più legati alla “coalizione del New Deal”, aveva intenzione di esportare nel vecchio continente indirizzandone la ricostruzione economica verso i territori del fordismo: produzione di massa e alti salari. L’aumento della ricchezza e la diffusione del benessere, da conseguire grazie all’applicazione delle ricette produttivistiche, avrebbero prosciugato il terreno di coltura degli estremismi politici. Il saggio si concentra sulla reazione della Confindustria al tentativo di trasposizione del modello produttivo di oltreoceano. Il testo si sofferma su due snodi decisivi nel delineare le posizioni dell’industria italiana: il primo, la fase di avvio dell’Erp, nel corso della quale vennero definendosi posizioni che rimarranno alla base del punto di vista confindustriale negli anni seguenti; il secondo, la partecipazione di una folta delegazione italiana alla conferenza internazionale degli industriali di New York, a fine 1951, che rappresenta un buon case study circa il confronto tra statunitensi e italiani sulla politica della produttività. In definitiva, i vertici confindustriali svolsero un’azione di freno rispetto alle spinte modernizzatrici provenienti dall’esterno. Nel contesto europeo del secondo dopoguerra in cui si assisteva al confronto-scontro tra americanismo e riformismo, l’azione del gruppo dirigente confindustriale, sembrava voler disegnare una sorta di terza via italiana tra la politica della crescita propugnata dagli Stati Uniti e la politica del pieno impiego prevalente in Europa, così rappresentando un soggetto fondamentale nella definizione e messa a punto di quell’«ibrido» tra aspirazioni ad un’economia aperta ed eredità degli anni Trenta che caratterizzò la gestione italiana degli aiuti.
2007
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