L'A. approfondisce e contestualizza le prospettive di riforma del legislatore italiano in materia di prove, interrogandosi in particolare sull'opportunità di introdurre nel nostro ordinamento uno strumento analogo alla discovery di matrice anglosassone. Tra le proposte avanzate dalla Commissione Vaccarella nel 2006 figura in effetti la previsione della facoltà di ottenere, anche solo in vista di un futuro giudizio ed indipendentemente dalla sua attivazione, la disponibilità di scritture o documenti presso pubblici depositari, informazioni scritte della pubblica amministrazione e soggetti assimilati, relativamente ad atti e documenti rilevanti. L’idea si colloca nel quadro più ampio del tentativo di avvicinare il modello adversarial puro, che impone al giudice il ruolo passivo di mero arbitro di fronte all’egemonica posizione dei contendenti e dei loro difensori, sebbene nei paesi d’origine siffatto paradigma non esista più ormai da tempo, in virtù di una serie di riforme che in via graduale sono venute assegnando alle corti sempre maggiori poteri di controllo e di gestione sul processo (cd. judicial case management). L’articolo illustra la disciplina della discovery comunitaria in materia di proprietà industriale e soprattutto la regolamentazione inglese della disclosure, introdotta con le Civil Procedure Rules del 1998, ove molti degli effetti distorsivi lamentati a livello transnazionale nei confronti dell’espediente statunitense della discovery risultano eliminati o contenuti. A corredo della trattazione il contributo affronta i problemi di assunzione all’estero degli ordini di disclosure, alla luce dell’esperienza maturata prima con la Conv. dell’Aja e poi con il Reg. 1206/2001 ed ipotizza i possibili ostacoli al riconoscimento delle sentenze straniere rese sulla base di disclosures illecite. Lo studio condotto consente all’A. di evidenziare come i problemi connessi all’assunzione di ordini di discovery in un ordinamento di civil law possano essere agevolmente prevenuti se il sistema normativo dello Stato richiedente ne limita le potenzialità esplorative e defatigatorie, nella consapevolezza degli indubbi vantaggi che siffatto rimedio probatorio può apportare anche in funzione deflattiva rispetto al contenzioso giudiziario. Forse proprio queste considerazioni hanno indotto la Commissione Vaccarella a suggerire la menzionata proposta novellatrice, nella quale difetta, tuttavia, la previsione di adeguate sanzioni processuali. Sotto quest’ultimo profilo, peraltro, la prudenza italiana sembra giustificarsi alla luce del più maturo atteggiamento che il nostro sistema assume verso le condotte lato sensu renitenti della parte, stimata nella sua qualità di contendente e titolare di oneri, non di suddito doverosamente prono al volere dell’organo giurisdizionale. In ambito comunitario e transnazionale, le aspirazioni di vera armonizzazione dei processi civili del Progetto Storme e dei ALI/UNIDROIT Principles and Rules of Transnational Civil Procedure non celano una significativa predilezione per i meccanismi di discovery, ma i tentativi di promuovere la trasparenza e la sostanziale parità delle armi sono approdati a risultati concreti solo in alcuni settori dei rapporti commerciali. Secondo l’A. l’avvicinamento della normativa anglosassone dovrebbe seguire un percorso graduale e “selettivo”, in modo da mutuare i soli aspetti della discovery che possano coesistere armonicamente con i valori costituzionali dei sistemi di civil law: il ricorso all’istituto dovrebbe insomma essere ammesso soltanto laddove il destinatario, in virtù degli obblighi di documentazione e trasparenza cui è soggetto, sia in grado di sopportarne i costi e le implicazioni. Nell’assecondare tali caute convergenze, cui non pare frapporsi più il principio nemo tenetur edere contra se – già eroso dal codice del 1940 –, il legislatore italiano potrebbe invero trarre un notevole e “mirato” vantaggio dalle soluzioni attinte in seno all’ordinamento inglese.

La disclosure inglese: aspetti comparatistici e transnazionali

ZUFFI, BEATRICE
2007

Abstract

L'A. approfondisce e contestualizza le prospettive di riforma del legislatore italiano in materia di prove, interrogandosi in particolare sull'opportunità di introdurre nel nostro ordinamento uno strumento analogo alla discovery di matrice anglosassone. Tra le proposte avanzate dalla Commissione Vaccarella nel 2006 figura in effetti la previsione della facoltà di ottenere, anche solo in vista di un futuro giudizio ed indipendentemente dalla sua attivazione, la disponibilità di scritture o documenti presso pubblici depositari, informazioni scritte della pubblica amministrazione e soggetti assimilati, relativamente ad atti e documenti rilevanti. L’idea si colloca nel quadro più ampio del tentativo di avvicinare il modello adversarial puro, che impone al giudice il ruolo passivo di mero arbitro di fronte all’egemonica posizione dei contendenti e dei loro difensori, sebbene nei paesi d’origine siffatto paradigma non esista più ormai da tempo, in virtù di una serie di riforme che in via graduale sono venute assegnando alle corti sempre maggiori poteri di controllo e di gestione sul processo (cd. judicial case management). L’articolo illustra la disciplina della discovery comunitaria in materia di proprietà industriale e soprattutto la regolamentazione inglese della disclosure, introdotta con le Civil Procedure Rules del 1998, ove molti degli effetti distorsivi lamentati a livello transnazionale nei confronti dell’espediente statunitense della discovery risultano eliminati o contenuti. A corredo della trattazione il contributo affronta i problemi di assunzione all’estero degli ordini di disclosure, alla luce dell’esperienza maturata prima con la Conv. dell’Aja e poi con il Reg. 1206/2001 ed ipotizza i possibili ostacoli al riconoscimento delle sentenze straniere rese sulla base di disclosures illecite. Lo studio condotto consente all’A. di evidenziare come i problemi connessi all’assunzione di ordini di discovery in un ordinamento di civil law possano essere agevolmente prevenuti se il sistema normativo dello Stato richiedente ne limita le potenzialità esplorative e defatigatorie, nella consapevolezza degli indubbi vantaggi che siffatto rimedio probatorio può apportare anche in funzione deflattiva rispetto al contenzioso giudiziario. Forse proprio queste considerazioni hanno indotto la Commissione Vaccarella a suggerire la menzionata proposta novellatrice, nella quale difetta, tuttavia, la previsione di adeguate sanzioni processuali. Sotto quest’ultimo profilo, peraltro, la prudenza italiana sembra giustificarsi alla luce del più maturo atteggiamento che il nostro sistema assume verso le condotte lato sensu renitenti della parte, stimata nella sua qualità di contendente e titolare di oneri, non di suddito doverosamente prono al volere dell’organo giurisdizionale. In ambito comunitario e transnazionale, le aspirazioni di vera armonizzazione dei processi civili del Progetto Storme e dei ALI/UNIDROIT Principles and Rules of Transnational Civil Procedure non celano una significativa predilezione per i meccanismi di discovery, ma i tentativi di promuovere la trasparenza e la sostanziale parità delle armi sono approdati a risultati concreti solo in alcuni settori dei rapporti commerciali. Secondo l’A. l’avvicinamento della normativa anglosassone dovrebbe seguire un percorso graduale e “selettivo”, in modo da mutuare i soli aspetti della discovery che possano coesistere armonicamente con i valori costituzionali dei sistemi di civil law: il ricorso all’istituto dovrebbe insomma essere ammesso soltanto laddove il destinatario, in virtù degli obblighi di documentazione e trasparenza cui è soggetto, sia in grado di sopportarne i costi e le implicazioni. Nell’assecondare tali caute convergenze, cui non pare frapporsi più il principio nemo tenetur edere contra se – già eroso dal codice del 1940 –, il legislatore italiano potrebbe invero trarre un notevole e “mirato” vantaggio dalle soluzioni attinte in seno all’ordinamento inglese.
2007
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