Con l’entrata in vigore della prima legge nazionale antitrust nel 1990 ha avuto inizio una nuova fase della politica economica italiana, caratterizzata da una progressiva riscoperta delle idee liberiste e da una crescente attenzione delle istituzioni al problema della concorrenza. La stessa Corte costituzionale, tradizionalmente cauta sull’argomento, appare più incline che in passato a riconoscere i vantaggi di un sistema concorrenziale per i singoli e per la collettività. Tuttavia essa continua a manifestare qualche incertezza sulla possibilità di ricondurre alla Costituzione i valori della concorrenza e del mercato provenienti dal diritto comunitario e recepiti dalla legislazione ordinaria. Come si possono conciliare tali valori, ispirati a una logica liberista ed efficientista, con i principi costituzionali di solidarietà sociale e governo democratico dell’economia che, almeno a livello formale, non hanno subito alcun cambiamento? Per rispondere a questo interrogativo occorre innanzitutto riflettere sulle ragioni che spingono oggi molti governi ad adottare una politica della concorrenza. Contrariamente a quanto di solito si afferma, la superiorità della forma di mercato concorrenziale rispetto a quella monopolistica od oligopolistica non sta tanto nella sua maggiore efficienza economica, quanto nella sua maggiore conformità ai principi del liberalismo democratico (primi fra tutti quelli di libertà, eguaglianza, pluralismo, divisione dei poteri e sovranità popolare). Un’opinione, questa, condivisa anche da gran parte dei Costituenti. Nonostante le profonde differenze nel modo di considerare il capitalismo e l’economia di mercato, tutte le forze presenti all’Assemblea erano infatti convinte che i monopoli e le altre concentrazioni di potere economico privato rappresentassero una grave minaccia alla libertà e all’eguaglianza dei cittadini, in grado di mettere a rischio la stessa democrazia. Se un’indicazione si può trarre dai lavori preparatori della Costituzione, essa è dunque nel senso di una forma di mercato che sappia coordinare adeguatamente libertà individuali ed esigenze collettive, garantendo un equilibrato svolgimento della vita del Paese. Il che sembra escludere sia la possibilità di trasformazioni del sistema in senso radicalmente socialista che la legittimità di politiche economiche di stampo ultraliberista. Partendo da simili premesse, la dottrina privatistica (prima) e quella pubblicistica (poi) hanno cercato di individuare un fondamento costituzionale del principio di libera concorrenza. Secondo alcuni, esso sarebbe riconducibile all’art. 41 co. 2 e 3 Cost., in quanto le nozioni di «utilità sociale» e «fini sociali» ivi contenute comprenderebbero anche interessi economici (efficienza, produttività e competitività delle imprese, miglioramento qualitativo dei prodotti e contenimento dei prezzi) massimamente garantiti da un funzionamento concorrenziale del mercato. Secondo altri, tale principio sarebbe ricavabile invece dall’art. 41 co. 1 Cost., attraverso un’interpretazione della libertà economica che tenga conto della sua attitudine a operare in due diverse direzioni: in senso verticale, come limite all’azione dei poteri pubblici; in senso orizzontale, come limite all’azione dei poteri privati. Si tratta di una tesi senz’altro preferibile, sia perché non presuppone una concezione economica discutibile (quella della maggiore efficienza allocativa e distributiva della concorrenza rispetto alle altre forme di mercato), sia perché deriva dall’applicazione al caso del generale principio della valenza anche verso i terzi (Drittwirkung) dei diritti fondamentali. Essa appare inoltre rafforzata dalla presenza del limite della «libertà» all’art. 41 co. 2 Cost. e trova ulteriore conferma nell’art. 1 co. 1 della legge antitrust. Il fatto che nel testo costituzionale non manchino gli indizi (artt. 2, 3, 41, 43 e 117 co. 2 Cost.) per il riconoscimento del principio di libera concorrenza non significa che tale principio non possa subire delle limitazioni anche rilevanti. Al contrario. Nei processi di liberalizzazione dell’economia è compito del legislatore ordinario trovare un giusto equilibrio tra l’esigenza di apertura dei mercati, necessaria per lo sviluppo della concorrenza, e quella di tutelare altri interessi costituzionali, da essa non sempre garantiti. Come è stato chiaramente affermato dai Costituenti e più volte ribadito dalla Corte, il principio ricavabile dalla Costituzione non è infatti quello di una concorrenza libera, ma quello di una concorrenza regolata e, per questa via, socialmente orientata.
Il principio costituzionale di libera concorrenza: fondamenti, interpretazioni, applicazioni
GIAMPIERETTI, MARCO
2003
Abstract
Con l’entrata in vigore della prima legge nazionale antitrust nel 1990 ha avuto inizio una nuova fase della politica economica italiana, caratterizzata da una progressiva riscoperta delle idee liberiste e da una crescente attenzione delle istituzioni al problema della concorrenza. La stessa Corte costituzionale, tradizionalmente cauta sull’argomento, appare più incline che in passato a riconoscere i vantaggi di un sistema concorrenziale per i singoli e per la collettività. Tuttavia essa continua a manifestare qualche incertezza sulla possibilità di ricondurre alla Costituzione i valori della concorrenza e del mercato provenienti dal diritto comunitario e recepiti dalla legislazione ordinaria. Come si possono conciliare tali valori, ispirati a una logica liberista ed efficientista, con i principi costituzionali di solidarietà sociale e governo democratico dell’economia che, almeno a livello formale, non hanno subito alcun cambiamento? Per rispondere a questo interrogativo occorre innanzitutto riflettere sulle ragioni che spingono oggi molti governi ad adottare una politica della concorrenza. Contrariamente a quanto di solito si afferma, la superiorità della forma di mercato concorrenziale rispetto a quella monopolistica od oligopolistica non sta tanto nella sua maggiore efficienza economica, quanto nella sua maggiore conformità ai principi del liberalismo democratico (primi fra tutti quelli di libertà, eguaglianza, pluralismo, divisione dei poteri e sovranità popolare). Un’opinione, questa, condivisa anche da gran parte dei Costituenti. Nonostante le profonde differenze nel modo di considerare il capitalismo e l’economia di mercato, tutte le forze presenti all’Assemblea erano infatti convinte che i monopoli e le altre concentrazioni di potere economico privato rappresentassero una grave minaccia alla libertà e all’eguaglianza dei cittadini, in grado di mettere a rischio la stessa democrazia. Se un’indicazione si può trarre dai lavori preparatori della Costituzione, essa è dunque nel senso di una forma di mercato che sappia coordinare adeguatamente libertà individuali ed esigenze collettive, garantendo un equilibrato svolgimento della vita del Paese. Il che sembra escludere sia la possibilità di trasformazioni del sistema in senso radicalmente socialista che la legittimità di politiche economiche di stampo ultraliberista. Partendo da simili premesse, la dottrina privatistica (prima) e quella pubblicistica (poi) hanno cercato di individuare un fondamento costituzionale del principio di libera concorrenza. Secondo alcuni, esso sarebbe riconducibile all’art. 41 co. 2 e 3 Cost., in quanto le nozioni di «utilità sociale» e «fini sociali» ivi contenute comprenderebbero anche interessi economici (efficienza, produttività e competitività delle imprese, miglioramento qualitativo dei prodotti e contenimento dei prezzi) massimamente garantiti da un funzionamento concorrenziale del mercato. Secondo altri, tale principio sarebbe ricavabile invece dall’art. 41 co. 1 Cost., attraverso un’interpretazione della libertà economica che tenga conto della sua attitudine a operare in due diverse direzioni: in senso verticale, come limite all’azione dei poteri pubblici; in senso orizzontale, come limite all’azione dei poteri privati. Si tratta di una tesi senz’altro preferibile, sia perché non presuppone una concezione economica discutibile (quella della maggiore efficienza allocativa e distributiva della concorrenza rispetto alle altre forme di mercato), sia perché deriva dall’applicazione al caso del generale principio della valenza anche verso i terzi (Drittwirkung) dei diritti fondamentali. Essa appare inoltre rafforzata dalla presenza del limite della «libertà» all’art. 41 co. 2 Cost. e trova ulteriore conferma nell’art. 1 co. 1 della legge antitrust. Il fatto che nel testo costituzionale non manchino gli indizi (artt. 2, 3, 41, 43 e 117 co. 2 Cost.) per il riconoscimento del principio di libera concorrenza non significa che tale principio non possa subire delle limitazioni anche rilevanti. Al contrario. Nei processi di liberalizzazione dell’economia è compito del legislatore ordinario trovare un giusto equilibrio tra l’esigenza di apertura dei mercati, necessaria per lo sviluppo della concorrenza, e quella di tutelare altri interessi costituzionali, da essa non sempre garantiti. Come è stato chiaramente affermato dai Costituenti e più volte ribadito dalla Corte, il principio ricavabile dalla Costituzione non è infatti quello di una concorrenza libera, ma quello di una concorrenza regolata e, per questa via, socialmente orientata.Pubblicazioni consigliate
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