La riforma del Titolo V della Costituzione ha riscritto in misura significativa l’assetto regionale italiano, dando maggiore risalto ai princìpi di sussidiarietà e differenziazione. L’ondata regionalista iniziata negli anni Novanta si è però presto infranta sugli scogli di una persistente inattuazione di quel disegno e di un “neocentralismo” che, disattendendo l’indicazione costituzionale di adeguare “i princìpi ed i metodi della legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”, ha svuotato sia le principali innovazioni della riforma, sia il successivo progetto di attuazione del federalismo fiscale. Un’opportunità di rilancio del regionalismo è oggi intravista nei percorsi di autonomia differenziata, consentiti dall’articolo 116, 3° co., della Costituzione. È tuttavia opinione diffusa, in dottrina, che la devoluzione di nuove funzioni alle Regioni che ne facciano richiesta debba essere preceduta dalla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (Lep): questi costituirebbero infatti la “misura dell’eguaglianza”, ossia lo strumento necessario a garantire che l’asimmetria regionale non aggravi i divari economico-sociali esistenti. Inseriti nella Costituzione dalla riforma del 2001, i Lep non sono mai stati determinati se non nel (pur centrale) settore della sanità; la clausola che li prevede (articolo 117, 2° co., lett. m della Costituzione) è poi di controversa interpretazione, e si colloca al centro di una serie di interrogativi attinenti all’evoluzione della stessa forma di Stato. Dai concetti di autonomia, differenziazione e asimmetria è allora opportuno prendere le mosse, allo scopo di chiarire in quali termini si dia un rapporto di tensione tra la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e il finanziamento del regionalismo differenziato, e di indagare le prospettive di sviluppo del sistema delle autonomie in Italia.
I livelli essenziali delle prestazioni tra processi di differenziazione ed esigenze di eguaglianza
Giovanni Comazzetto
2024
Abstract
La riforma del Titolo V della Costituzione ha riscritto in misura significativa l’assetto regionale italiano, dando maggiore risalto ai princìpi di sussidiarietà e differenziazione. L’ondata regionalista iniziata negli anni Novanta si è però presto infranta sugli scogli di una persistente inattuazione di quel disegno e di un “neocentralismo” che, disattendendo l’indicazione costituzionale di adeguare “i princìpi ed i metodi della legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”, ha svuotato sia le principali innovazioni della riforma, sia il successivo progetto di attuazione del federalismo fiscale. Un’opportunità di rilancio del regionalismo è oggi intravista nei percorsi di autonomia differenziata, consentiti dall’articolo 116, 3° co., della Costituzione. È tuttavia opinione diffusa, in dottrina, che la devoluzione di nuove funzioni alle Regioni che ne facciano richiesta debba essere preceduta dalla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (Lep): questi costituirebbero infatti la “misura dell’eguaglianza”, ossia lo strumento necessario a garantire che l’asimmetria regionale non aggravi i divari economico-sociali esistenti. Inseriti nella Costituzione dalla riforma del 2001, i Lep non sono mai stati determinati se non nel (pur centrale) settore della sanità; la clausola che li prevede (articolo 117, 2° co., lett. m della Costituzione) è poi di controversa interpretazione, e si colloca al centro di una serie di interrogativi attinenti all’evoluzione della stessa forma di Stato. Dai concetti di autonomia, differenziazione e asimmetria è allora opportuno prendere le mosse, allo scopo di chiarire in quali termini si dia un rapporto di tensione tra la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e il finanziamento del regionalismo differenziato, e di indagare le prospettive di sviluppo del sistema delle autonomie in Italia.Pubblicazioni consigliate
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