I Mirabilia aristotelici, una raccolta di fatti e detti meravigliosi, certamente spuria ma attribuita al filosofo di Stagira almeno dal II secolo d.C., furono tradotti in latino tre volte fra la fine del sec. XIII e il Quattrocento, sempre a partire da un medesimo, minoritario, ramo della tradizione greca. La versione medioevale, opera di Bartolomeo da Messina, godette di scarsa circolazione e per secoli giacque pressoché dimenticata nel codex unicus che la trasmette. Del pari sfortunata fu la versione che il bizantino Leonzio Pilato allestì a Firenze, nel 1360, su richiesta di Giovanni Boccaccio, che ne migliorò lo stile latino. Di quest’ultimo testo, conservato sino alle soglie dell’età moderna, sopravvivono solo pochi frammenti trasmessi per tradizione indiretta, sparsi fra le opere di Boccaccio e quelle del suo emulo Domenico Silvestri. La più recente versione latina del De mirabilibus, opera del veronese Antonio Beccaria, fu allestita nel terzo quarto del XV secolo. Questa traduzione era inevitabilmente destinata a essere soppiantata dalle versioni cinquecentesche, condotte sul testo greco dell’Aldina, ma la grande fortuna dell’editio princeps, inclusa in un ampio florilegio aristotelico pubblicato a Venezia nel 1493, la strappò al destino delle due precedenti traduzioni, garantendone una capillare diffusione nelle biblioteche di tutta Europa, e particolarmente fra quanti non potevano accedere all’originale greco. Della traduzione di Beccaria rimane anche un testimone manoscritto indipendente dalla stampa, il Riccardiano 932, allestito forse mentre l’autore era ancora in vita, che reca traccia di una redazione diversa da quella pubblicata a fine Quattrocento. Non è facile stabilire quale sia il rapporto fra le due recensioni, ma la meno curata facies linguistica del manoscritto, che forse è copia di un autografo di Beccaria stesso, sembrerebbe quella originale, successivamente ripulita e perfezionata in vista della stampa.

Aristotelis Libellus de admirandis in natura auditis. Antonio Beccaria interprete. A cura di Ciro Giacomelli

Ciro Giacomelli
2022

Abstract

I Mirabilia aristotelici, una raccolta di fatti e detti meravigliosi, certamente spuria ma attribuita al filosofo di Stagira almeno dal II secolo d.C., furono tradotti in latino tre volte fra la fine del sec. XIII e il Quattrocento, sempre a partire da un medesimo, minoritario, ramo della tradizione greca. La versione medioevale, opera di Bartolomeo da Messina, godette di scarsa circolazione e per secoli giacque pressoché dimenticata nel codex unicus che la trasmette. Del pari sfortunata fu la versione che il bizantino Leonzio Pilato allestì a Firenze, nel 1360, su richiesta di Giovanni Boccaccio, che ne migliorò lo stile latino. Di quest’ultimo testo, conservato sino alle soglie dell’età moderna, sopravvivono solo pochi frammenti trasmessi per tradizione indiretta, sparsi fra le opere di Boccaccio e quelle del suo emulo Domenico Silvestri. La più recente versione latina del De mirabilibus, opera del veronese Antonio Beccaria, fu allestita nel terzo quarto del XV secolo. Questa traduzione era inevitabilmente destinata a essere soppiantata dalle versioni cinquecentesche, condotte sul testo greco dell’Aldina, ma la grande fortuna dell’editio princeps, inclusa in un ampio florilegio aristotelico pubblicato a Venezia nel 1493, la strappò al destino delle due precedenti traduzioni, garantendone una capillare diffusione nelle biblioteche di tutta Europa, e particolarmente fra quanti non potevano accedere all’originale greco. Della traduzione di Beccaria rimane anche un testimone manoscritto indipendente dalla stampa, il Riccardiano 932, allestito forse mentre l’autore era ancora in vita, che reca traccia di una redazione diversa da quella pubblicata a fine Quattrocento. Non è facile stabilire quale sia il rapporto fra le due recensioni, ma la meno curata facies linguistica del manoscritto, che forse è copia di un autografo di Beccaria stesso, sembrerebbe quella originale, successivamente ripulita e perfezionata in vista della stampa.
2022
978-88-9290-213-8
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