Il judicial review, nato negli Stati Uniti già prima della celebre sentenza Marbury v. Madison, comporta il rischio di cortocircuitare il processo democratico. L’attribuzione al giudiziario della possibilità di sindacare l’operato del legislatore può essere vista, infatti, come una limitazione del ruolo del corpo legislativo, il quale, a differenza dei giudici, rappresenta la volontà del popolo. Il problema è noto alla dottrina statunitense fin dagli anni ’60, quando A. Bickel lo ha qualificò come countermajoritarian difficulty (The Least Dangerous Branch, Bobbs-Merrill, 1962). Il judicial activism delle Corti, quell’attitudine, cioè, che spinge i giudici a sentirsi parte attiva nel processo di creazione di nuovi diritti, rende maggiormente percepibile il problema. Da ciò l’idea di una ricostruzione dottrinaria che diluisce la conflittualità generata dal judicial activism in una teoria che colloca i giudici costituzionali nella dinamica dei poteri. Giudici incaricati del controllo di costituzionalità e legislatori non sarebbero in conflitto, ma in costante dialogo. Si pensi, ad esempio, alle sentenze ad effetto differito tipiche di alcuni ordinamenti (tra cui il Canada). I giudici, con deferenza, indicano al legislatore un problema di legittimità costituzionale lasciandogli il tempo di correggerlo. Alla scadenza del termine indicato, gli effetti caducatori della sentenza si producono solo di fronte all’inerzia del legislatore. Questa corrente è nata negli Stati Uniti ed ha conosciuto grande successo in Canada, dove il problema della countermajoritaria difficulty è avvertito con maggior forza a causa della diversa origine dell’ordinamento rispetto agli USA. Basti pensare alla presenza in Canada, e non negli Stati Uniti, del principio della Parliamentary sovereignty di origine britannica. Il volume ricostruisce le premesse teoriche di tale approccio, cercando di delineare i criteri da tenere in considerazione al fine di verificarne una sua applicabilità a contesti diversi da quelli in cui è nato, segnatamente negli ordinamenti in cui è stato implementato il modello kelseniano di controllo di costituzionalità.

Premesse metodologiche ad una teoria del dialogo tra giudice costituzionale e legislatore

GEROTTO, SERGIO
2008

Abstract

Il judicial review, nato negli Stati Uniti già prima della celebre sentenza Marbury v. Madison, comporta il rischio di cortocircuitare il processo democratico. L’attribuzione al giudiziario della possibilità di sindacare l’operato del legislatore può essere vista, infatti, come una limitazione del ruolo del corpo legislativo, il quale, a differenza dei giudici, rappresenta la volontà del popolo. Il problema è noto alla dottrina statunitense fin dagli anni ’60, quando A. Bickel lo ha qualificò come countermajoritarian difficulty (The Least Dangerous Branch, Bobbs-Merrill, 1962). Il judicial activism delle Corti, quell’attitudine, cioè, che spinge i giudici a sentirsi parte attiva nel processo di creazione di nuovi diritti, rende maggiormente percepibile il problema. Da ciò l’idea di una ricostruzione dottrinaria che diluisce la conflittualità generata dal judicial activism in una teoria che colloca i giudici costituzionali nella dinamica dei poteri. Giudici incaricati del controllo di costituzionalità e legislatori non sarebbero in conflitto, ma in costante dialogo. Si pensi, ad esempio, alle sentenze ad effetto differito tipiche di alcuni ordinamenti (tra cui il Canada). I giudici, con deferenza, indicano al legislatore un problema di legittimità costituzionale lasciandogli il tempo di correggerlo. Alla scadenza del termine indicato, gli effetti caducatori della sentenza si producono solo di fronte all’inerzia del legislatore. Questa corrente è nata negli Stati Uniti ed ha conosciuto grande successo in Canada, dove il problema della countermajoritaria difficulty è avvertito con maggior forza a causa della diversa origine dell’ordinamento rispetto agli USA. Basti pensare alla presenza in Canada, e non negli Stati Uniti, del principio della Parliamentary sovereignty di origine britannica. Il volume ricostruisce le premesse teoriche di tale approccio, cercando di delineare i criteri da tenere in considerazione al fine di verificarne una sua applicabilità a contesti diversi da quelli in cui è nato, segnatamente negli ordinamenti in cui è stato implementato il modello kelseniano di controllo di costituzionalità.
2008
9788861292482
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