Il volume si sviluppa attorno al fil rouge del rapporto tra testo e messinscena, studiato mediante l’analisi della poetica degli autori più significativi del romanticismo britannico e del modo in cui essa si riversa nella loro produzione drammaturgica. Il percorso inizia dall’analisi della poetica di Joanna Baillie. Dall’impianto teorico su cui si basa la sua scrittura drammaturgica emerge una chiara esigenza pedagogica: mostrare al pubblico quali siano i pericoli di una passione non controllata, e come sia opportuno sorvegliarne l’evoluzione per evitare che essa giunga ad esiti estremi. La rappresentazione assume così un ruolo centrale: mezzo che offre al pubblico l’opportunità di osservare direttamente la fenomenologia delle passioni nei loro aspetti più segreti e devianti, essa diventa lo strumento educativo per eccellenza, in grado di mostrare im-mediatamente gli esiti negativi e aberranti dell’eccesso passionale e di conseguenza di mettere in guardia in maniera particolarmente efficace lo spettatore, inducendolo ad una condotta più controllata e salutare. Ciò spiega l’urgenza rappresentativa della Baillie, che si spinge fino ad assumere posizioni radicali quale quella di rinunciare (per un certo periodo) alla pubblicazione a stampa al fine di favorire la rappresentazione delle proprie pièces. Per illustrare come la poetica dell’autrice si rifletta nei suoi scritti drammaturgici, si punta poi l’attenzione sul più noto dei testi bailliani, “De Monfort”, per molti versi campione significativo del progetto della scrittrice, di cui sono studiati sia i risvolti tematici sia alcune rappresentazioni esemplari. A seguire viene analizzata la pronuncia teatrale S.T. Coleridge, che pur lasciando trapelare una certa diffidenza nei confronti della messinscena contemporanea nel suo paese, non risulta contrario in assoluto alla rappresentazione, ma piuttosto ad un gusto per la spettacolarità che, spinto all’estremo, incida negativamente sulla qualità della produzione drammatica. Che questo sia il punto cruciale è dimostrato non solo da dichiarazioni specifiche, ma anche dal fatto che, lungi dal condannare la scena in toto, Coleridge propone una concezione innovativa di allestimento per alcuni versi anticipatrice di certe pronunce registiche primonovecentesche, soprattutto quando sostiene che le arti debbano armonizzarsi e cooperare nella messinscena al fine di esprimere una comune essenza ideale. La monografia inoltre evidenzia che l’interesse coleridgeano per la rappresentazione è strettamente legato ad un intento pedagogico: egli infatti vede in essa uno strumento efficace per risanare la società inglese, da lui ritenuta moralmente degradata. L’approfondimento sulla poetica è accompagnato dall’analisi di “Zapolya”, che delinea le vicende che hanno impedito la rappresentazione della pièce, e approfondisce le linee tematiche del testo, un chiaro esempio dell’intento moralizzante dell’autore. Il volume si conclude con lo studio della poetica teatrale e della drammaturgia di Byron, che evidenzia come con tutta probabilità il motivo nodale del noto atteggiamento antirappresentativo dell’autore stia nell’esigenza di conservare l’integrità del testo drammatico come da lui concepito e, di conseguenza, di mantenere il controllo sulla messinscena. Non condividendo la motivazione pedagogica che innerva la teoria della Baillie e che induce Coleridge a cercare un compromesso con la scena contemporanea, Byron rifiuta l’allestimento delle proprie opere drammatiche tout court, anche componendole in maniera tale da renderle il meno compatibili possibile con la scena del tempo, a suo avviso segnata da un eccessivo condizionamento esercitato da attori e allestitori. Ad esemplificare la posizione byroniana, viene analizzato un celebre testo, il “Manfred”. Composta esplicitamente in antitesi alla messinscena, la pièce viene scritta in maniera appositamente oscura, in modo da renderla materiale ostico per chiunque voglia rappresentarlo.

La scena tentatrice. Coleridge, Byron, Baillie

DEGLI ESPOSTI, PAOLA
2008

Abstract

Il volume si sviluppa attorno al fil rouge del rapporto tra testo e messinscena, studiato mediante l’analisi della poetica degli autori più significativi del romanticismo britannico e del modo in cui essa si riversa nella loro produzione drammaturgica. Il percorso inizia dall’analisi della poetica di Joanna Baillie. Dall’impianto teorico su cui si basa la sua scrittura drammaturgica emerge una chiara esigenza pedagogica: mostrare al pubblico quali siano i pericoli di una passione non controllata, e come sia opportuno sorvegliarne l’evoluzione per evitare che essa giunga ad esiti estremi. La rappresentazione assume così un ruolo centrale: mezzo che offre al pubblico l’opportunità di osservare direttamente la fenomenologia delle passioni nei loro aspetti più segreti e devianti, essa diventa lo strumento educativo per eccellenza, in grado di mostrare im-mediatamente gli esiti negativi e aberranti dell’eccesso passionale e di conseguenza di mettere in guardia in maniera particolarmente efficace lo spettatore, inducendolo ad una condotta più controllata e salutare. Ciò spiega l’urgenza rappresentativa della Baillie, che si spinge fino ad assumere posizioni radicali quale quella di rinunciare (per un certo periodo) alla pubblicazione a stampa al fine di favorire la rappresentazione delle proprie pièces. Per illustrare come la poetica dell’autrice si rifletta nei suoi scritti drammaturgici, si punta poi l’attenzione sul più noto dei testi bailliani, “De Monfort”, per molti versi campione significativo del progetto della scrittrice, di cui sono studiati sia i risvolti tematici sia alcune rappresentazioni esemplari. A seguire viene analizzata la pronuncia teatrale S.T. Coleridge, che pur lasciando trapelare una certa diffidenza nei confronti della messinscena contemporanea nel suo paese, non risulta contrario in assoluto alla rappresentazione, ma piuttosto ad un gusto per la spettacolarità che, spinto all’estremo, incida negativamente sulla qualità della produzione drammatica. Che questo sia il punto cruciale è dimostrato non solo da dichiarazioni specifiche, ma anche dal fatto che, lungi dal condannare la scena in toto, Coleridge propone una concezione innovativa di allestimento per alcuni versi anticipatrice di certe pronunce registiche primonovecentesche, soprattutto quando sostiene che le arti debbano armonizzarsi e cooperare nella messinscena al fine di esprimere una comune essenza ideale. La monografia inoltre evidenzia che l’interesse coleridgeano per la rappresentazione è strettamente legato ad un intento pedagogico: egli infatti vede in essa uno strumento efficace per risanare la società inglese, da lui ritenuta moralmente degradata. L’approfondimento sulla poetica è accompagnato dall’analisi di “Zapolya”, che delinea le vicende che hanno impedito la rappresentazione della pièce, e approfondisce le linee tematiche del testo, un chiaro esempio dell’intento moralizzante dell’autore. Il volume si conclude con lo studio della poetica teatrale e della drammaturgia di Byron, che evidenzia come con tutta probabilità il motivo nodale del noto atteggiamento antirappresentativo dell’autore stia nell’esigenza di conservare l’integrità del testo drammatico come da lui concepito e, di conseguenza, di mantenere il controllo sulla messinscena. Non condividendo la motivazione pedagogica che innerva la teoria della Baillie e che induce Coleridge a cercare un compromesso con la scena contemporanea, Byron rifiuta l’allestimento delle proprie opere drammatiche tout court, anche componendole in maniera tale da renderle il meno compatibili possibile con la scena del tempo, a suo avviso segnata da un eccessivo condizionamento esercitato da attori e allestitori. Ad esemplificare la posizione byroniana, viene analizzato un celebre testo, il “Manfred”. Composta esplicitamente in antitesi alla messinscena, la pièce viene scritta in maniera appositamente oscura, in modo da renderla materiale ostico per chiunque voglia rappresentarlo.
2008
9788860580894
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11577/2271864
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