Vengono esaminate, sulla base di una prospettazione diacronica dispiegantesi lungo l’intero torno di tempo connotante l’esperienza processuale romana, natura ed ipotesi di responsabilità a carico del ‘iudex privatus’ (tenuto da obbligazione ‘quasi ex delicto’ a tenore della sistematica gaiano-giustinianea), con speciale riferimento all’emersione e alla configurabilità dogmatica del ‘litem suam facere’ sotto la vigenza del processo ‘per legis actiones’ e, in progresso di tempo, del rito formulare. Confutata l’ipotesi che la responsabilità del giudice privato investito del merito della controversia si estendesse anche alla corruzione (nella fattispecie del ‘pecuniam accipere’), si mette in luce come egli rispondesse per l’oggettivo inadempimento di obblighi procedurali. Sotto tale profilo, dopo un’analisi afferente alle origini dell’espressione ‘litem suam facere’, sviluppata attraverso una minuziosa esegesi di fonti giuridiche tratte dal Digesto (ma corroborate anche da determinante documentazione epigrafica e papirologica), nonché letterarie (Plauto, Cicerone, Seneca, Aulo Gellio, Macrobio), si individua la tipologia delle condotte illecite, altresì precisando come lo stato soggettivo (in particolare il dolo perpetrato per Ulpiano ‘in fraudem legis’, e in età ormai non più classica la colpa) rilevasse ai fini dell’integrazione della fattispecie soltanto in termini circoscritti, cui non fosse estraneo – ancora una volta – il cattivo uso dei poteri processuali attribuiti al giudice, con surrettizia quanto perdurante violazione dei suoi doveri procedurali. Ampia trattazione è poi dedicata alla struttura dell’azione ‘adversus iudicem qui litem suam fecit’, la cui controversa natura penale ha implicato considerazioni circa la posizione del ‘filiusfamilias iudex’, l’intrasmissibilità passiva del rimedio giudiziale e la struttura della formula (ipotizzandosi l’inserzione di ‘intentiones’ tra loro alternative a fronte di ‘condemnatio’ alla ‘vera aestimatio litis’ piuttosto che ‘in bonum et aequum’). Si conclude poi l’indagine osservando che il ‘litem suam facere’, pur conservandosi sul terreno letterale anche in epoca postclassica e giustinianea, perda la configurazione che l’aveva caratterizzato in precedenza, laddove la relativa ‘actio’ rimarrebbe esperibile in limitate e residuali situazioni. La responsabilità dei giudicanti – ormai funzionari imperiali o soggetti dai medesimi delegati – (ri)acquisisce dunque nel tardo Impero natura giuspubblicistica, dando l’abbrivio a trasformazioni tali da sfociare in ricostruzioni ‘lato sensu’ moderne.
La responsabilità del 'iudex privatus'
SCEVOLA, ROBERTO GIAMPIERO FRANCESCO
2004
Abstract
Vengono esaminate, sulla base di una prospettazione diacronica dispiegantesi lungo l’intero torno di tempo connotante l’esperienza processuale romana, natura ed ipotesi di responsabilità a carico del ‘iudex privatus’ (tenuto da obbligazione ‘quasi ex delicto’ a tenore della sistematica gaiano-giustinianea), con speciale riferimento all’emersione e alla configurabilità dogmatica del ‘litem suam facere’ sotto la vigenza del processo ‘per legis actiones’ e, in progresso di tempo, del rito formulare. Confutata l’ipotesi che la responsabilità del giudice privato investito del merito della controversia si estendesse anche alla corruzione (nella fattispecie del ‘pecuniam accipere’), si mette in luce come egli rispondesse per l’oggettivo inadempimento di obblighi procedurali. Sotto tale profilo, dopo un’analisi afferente alle origini dell’espressione ‘litem suam facere’, sviluppata attraverso una minuziosa esegesi di fonti giuridiche tratte dal Digesto (ma corroborate anche da determinante documentazione epigrafica e papirologica), nonché letterarie (Plauto, Cicerone, Seneca, Aulo Gellio, Macrobio), si individua la tipologia delle condotte illecite, altresì precisando come lo stato soggettivo (in particolare il dolo perpetrato per Ulpiano ‘in fraudem legis’, e in età ormai non più classica la colpa) rilevasse ai fini dell’integrazione della fattispecie soltanto in termini circoscritti, cui non fosse estraneo – ancora una volta – il cattivo uso dei poteri processuali attribuiti al giudice, con surrettizia quanto perdurante violazione dei suoi doveri procedurali. Ampia trattazione è poi dedicata alla struttura dell’azione ‘adversus iudicem qui litem suam fecit’, la cui controversa natura penale ha implicato considerazioni circa la posizione del ‘filiusfamilias iudex’, l’intrasmissibilità passiva del rimedio giudiziale e la struttura della formula (ipotizzandosi l’inserzione di ‘intentiones’ tra loro alternative a fronte di ‘condemnatio’ alla ‘vera aestimatio litis’ piuttosto che ‘in bonum et aequum’). Si conclude poi l’indagine osservando che il ‘litem suam facere’, pur conservandosi sul terreno letterale anche in epoca postclassica e giustinianea, perda la configurazione che l’aveva caratterizzato in precedenza, laddove la relativa ‘actio’ rimarrebbe esperibile in limitate e residuali situazioni. La responsabilità dei giudicanti – ormai funzionari imperiali o soggetti dai medesimi delegati – (ri)acquisisce dunque nel tardo Impero natura giuspubblicistica, dando l’abbrivio a trasformazioni tali da sfociare in ricostruzioni ‘lato sensu’ moderne.Pubblicazioni consigliate
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