Il punto di partenza del nostro lavoro risiede nella considerazione che la comunicazione economico-finanziaria d’impresa assume una maggiore importanza quanto maggiori sono le asimmetrie informative tra soggetti interni, possessori di informazioni private, e soggetti esterni (investitori e stakeholder) che dispongono “solamente” di informazioni comunicate direttamente dall’impresa o elaborate da società specializzate. Il fenomeno delle asimmetrie informative è quindi qui ricondotto al conflitto di interessi, tipico della teoria dell’agenzia, esistente tra queste due categorie di soggetti e sorge nel momento in cui gli investitori non hanno un ruolo attivo nella gestione dell’impresa la cui responsabilità è delegata al management. Queste asimmetrie informative possono essere ridotte tramite differenti meccanismi. Una prima soluzione riguarda l’individuazione di contratti ottimali tra imprenditori ed investitori: questi contratti forniscono incentivi per una disclosure completa di informazioni private, mitigando in questo modo il problema della errata valutazione di una iniziativa imprenditoriale. Un’altra proposta risiede nella regolamentazione condotta da enti che disciplinano il funzionamento dei mercati finanziari e che determinano i principi e le regole del reporting istituzionale in merito al tipo ed alla quantità di informazioni che devono essere comunicate. I contratti e gli incentivi per una maggiore disclosure così come la regolamentazione della comunicazione per il mercato si sono però dimostrati non sufficienti ad annullare le asimmetrie informative ed a soddisfare la richiesta di informazioni che proviene dal mercato. Questi elementi aprono lo spazio per la comunicazione volontaria da parte dell’impresa: una impresa infatti comunica informazioni in eccesso rispetto a quelle previste dalla normativa perché queste ultime non sono sufficienti a soddisfare il fabbisogno di conoscenza degli investitori relativamente a strategie, leve di vantaggio competitivo e risultati ottenuti e preventivati. A queste determinanti della comunicazione volontaria riconducibili, in linea generale, all’inefficiente regolazione del mercato è possibile associarne altre riconducibili a differenti teorie (la agency theory, la signalling theory, legitimacy theory e la proprietary costs theory) che si pongono l’obiettivo di individuare le motivazioni che portano il management di un’azienda a condurre una maggiore o minore disclosure. Dopo aver spiegato il perché le imprese sono spinte a comunicare informazioni in eccesso rispetto a quelle richieste dalla normativa, ci si sofferma ad esaminare quali sono queste informazioni. A questo scopo si è utilizzata una duplice prospettiva di analisi che, portata a sintesi, ha permesso di individuare principi, contenuto e modalità di presentazione della comunicazione volontaria: la prospettiva normativa che nasce da argomentazioni logiche, cioè quello che gli utilizzatori dovrebbero conoscere, e la prospettiva prescrittiva che nasce dall’analisi empirica, cioè quello che gli utilizzatori vorrebbero conoscere. L’individuazione del contenuto della disclosure è quindi condotta facendo riferimento ad una serie di indagini empiriche sulle aspettative delle informazioni da parte di utenti esterni ed agli schemi di external reporting proposti da accademici, da organismi professionali, da enti che disciplinano il funzionamento dei mercati e da società di consulenza. In termini generali tutti questi schemi si caratterizzano per il fatto che richiedono alle imprese un numero maggiore di informazioni rispetto a quelle prescritte dalla normativa o rispetto alle guideline esistenti. Ciò che guida la predisposizione di questi schemi non è però il solo incremento della quantità dell’informazione comunicata ma anche la necessità di fornire ai soggetti esterni informazioni utili sulle quali essi possono fondare le decisioni di investimento. Uno studio sulla comunicazione volontaria non può, a nostro giudizio, prescindere dalla valutazione di quali sono gli effetti che le imprese si attendono dalla comunicazione delle informazioni al mercato. In questo lavoro, non si sostiene però la tesi che è necessario che le imprese offrano ai soggetti esterni la maggior disclosure possibile in quanto esistono, come evidenziato dal corpus teorico di studi sulla comunicazione esterna, sia benefici (riduzione del costo del capitale di rischio, riduzione del costo del capitale di debito, aumento della liquidità del titolo, correlazione maggiore del prezzo del titolo con le prospettive di risultato dell’impresa, a parità di prospettive economiche con altre aziende una quotazione maggiore perché l’impresa è percepita “meno rischiosa”, etc.) sia costi della disclosure (costi per produrre le informazioni, costi collegati al rischio di cause legali da parte di soggetti esterni, rischi di offrire informazioni che possono danneggiare la posizione competitiva dell’impresa, rischio di fornire informazioni che attirino un interesse non voluto sull’impresa, etc.). tità di informazioni che devono essere comunicate. I contratti e gli incentivi per una maggiore disclosure così come la regolamentazione della comunicazione per il mercato si sono però dimostrati non sufficienti ad annullare le asimmetrie informative ed a soddisfare la richiesta di informazioni che proviene dal mercato. Questi elementi aprono lo spazio per la comunicazione volontaria da parte dell’impresa: una impresa infatti comunica informazioni in eccesso rispetto a quelle previste dalla normativa perché queste ultime non sono sufficienti a soddisfare il fabbisogno di conoscenza degli investitori relativamente a strategie, leve di vantaggio competitivo e risultati ottenuti e preventivati. A queste determinanti della comunicazione volontaria riconducibili, in linea generale, all’inefficiente regolazione del mercato è possibile associarne altre riconducibili a differenti teorie (la agency theory, la signalling theory, legitimacy theory e la proprietary costs theory) che si pongono l’obiettivo di individuare le motivazioni che portano il management di un’azienda a condurre una maggiore o minore disclosure. Dopo aver spiegato il perché le imprese sono spinte a comunicare informazioni in eccesso rispetto a quelle richieste dalla normativa, ci si sofferma ad esaminare quali sono queste informazioni. A questo scopo si è utilizzata una duplice prospettiva di analisi che, portata a sintesi, ha permesso di individuare principi, contenuto e modalità di presentazione della comunicazione volontaria: la prospettiva normativa che nasce da argomentazioni logiche, cioè quello che gli utilizzatori dovrebbero conoscere, e la prospettiva prescrittiva che nasce dall’analisi empirica, cioè quello che gli utilizzatori vorrebbero conoscere. L’individuazione del contenuto della disclosure è quindi condotta facendo riferimento ad una serie di indagini empiriche sulle aspettative delle informazioni da parte di utenti esterni ed agli schemi di external reporting proposti da accademici, da organismi professionali, da enti che disciplinano il funzionamento dei mercati e da società di consulenza. In termini generali tutti questi schemi si caratterizzano per il fatto che richiedono alle imprese un numero maggiore di informazioni rispetto a quelle prescritte dalla normativa o rispetto alle guideline esistenti. Ciò che guida la predisposizione di questi schemi non è però il solo incremento della quantità dell’informazione comunicata ma anche la necessità di fornire ai soggetti esterni informazioni utili sulle quali essi possono fondare le decisioni di investimento. Uno studio sulla comunicazione volontaria non può, a nostro giudizio, prescindere dalla valutazione di quali sono gli effetti che le imprese si attendono dalla comunicazione delle informazioni al mercato. In questo lavoro, non si sostiene però la tesi che è necessario che le imprese offrano ai soggetti esterni la maggior disclosure possibile in quanto esistono, come evidenziato dal corpus teorico di studi sulla comunicazione esterna, sia benefici (riduzione del costo del capitale di rischio, riduzione del costo del capitale di debito, aumento della liquidità del titolo, correlazione maggiore del prezzo del titolo con le prospettive di risultato dell’impresa, a parità di prospettive economiche con altre aziende una quotazione maggiore perché l’impresa è percepita “meno rischiosa”, etc.) sia costi della disclosure (costi per produrre le informazioni, costi collegati al rischio di cause legali da parte di soggetti esterni, rischi di offrire informazioni che possono danneggiare la posizione competitiva dell’impresa, rischio di fornire informazioni che attirino un interesse non voluto sull’impresa, etc.). La nostra attenzione si focalizza quindi su un concetto proposto da molti studiosi: la finalità della comunicazione come costruzione di credibilità strategica e reddituale d’impresa che si manifesta nel momento in cui gli investitori vengono a valutare in modo positivo le linee strategiche di sviluppo dell’impresa. Costruire la credibilità strategica e reddituale significa creare nei soggetti esterni la consapevolezza che l’impresa si trova all’interno di un percorso virtuoso e viene gestita in modo da riuscire a far fronte alle difficoltà (ambientali, strategiche, competitive ed operative), a cogliere le opportunità che si aprono, a difendere i vantaggi competitivi sostenibili e ad avere le risorse per poterne sviluppare altri. Questo comporta che se l’impresa ha conseguito risultati positivi in passato tali risultati sono destinati a ripetersi in futuro o se, al contrario, ha conseguito risultati negativi questi possono essere attribuibili a fattori (interni o esterni non ha importanza) che sono stati identificati ed affrontati e gestiti oppure eliminati. Tramite questa credibilità, l’azienda è in grado di diffondere il valore del capitale economico nel mercato cioè attivare quel processo che trasferisce il valore realizzato grazie allo svolgimento della propria attività nella quotazione dei titoli. Se in relazione agli investitori la finalità della comunicazione economicofinanziaria è la costruzione della credibilità strategica e reddituale, si propone, per analogia, di estendere questo concetto ad altre categorie di stakeholder (non interessate in modo principale alla creazione di valore) facendo riferimento alla credibilità sociale ed ambientale Allo scopo di creare la credibilità sociale ed ambientale diviene necessario elaborare ed offrire ai soggetti esterni uno spettro più ampio di informazioni che coprano le aree in cui gli stakeholder vogliono essere informati e rispetto alle quali spesso esercitano pressioni nei confronti dell’impresa per ottenere un flusso di informazioni che permetta loro di verificare se tali aspettative sono state soddisfatte. La creazione della credibilità sociale ed ambientale è altrettanto importante per il successo imprenditoriale di lungo termine che è reso possibile dal soddisfacimento delle esigenze delle differenti e particolari categorie di stakeholder. Infatti, secondo una visione oramai diffusa, la capacità che un’impresa ha di ottenere il consenso delle varie categorie di stakeholder è un elemento che, sempre più spesso, viene posto alla base della capacità di creare valore. La credibilità strategico-reddituale e la credibilità socio-ambientale devono, oggi più che mai, essere però fondate sulla credibilità informativa (cioè l’informazione rilasciata al mercato deve essere credibile) per raggiungere la quale, viene sostenuto in questo lavoro, è necessario andare oltre ai requisiti informativi e regolamentari che disciplinano la diffusione delle informazioni nel mercato in modo da avvicinarsi a quelli che sono i reali fabbisogni informativi degli investitori e degli stakeholder. In sostanza è solamente tramite una disclosure volontaria “affidabile” sulle dimensioni ritenute rilevanti da parte degli investitori che è possibile creare aspettative relativamente alla sostenibilità dei processi di creazione di valore e far si gli stakeholder siano consapevoli che l’impresa sta agendo al meglio per tutelare i loro interessi. In questo modo è possibile creare consenso attorno allo svolgimento dell’attività d’impresa e sostenere, di conseguenza, tramite la comunicazione il processo di diffusione del valore nel mercato secondo una prospettiva temporale di lungo termine. Nella parte terminale del nostro lavoro vengono presentate due analisi empiriche sulla disclosure offerta dalle imprese italiane in relazione a due elementi che negli ultimi anni hanno catturato l’interesse di investitori, di manager e di studiosi: informazioni prospettiche – rischi ed il capitale intangibile (la ricerca sulla comunicazione del capitale intangibile ha anche una prospettiva internazionale in quanto la disclosure di imprese appartenenti in tre differenti paesi viene analizzata in chiave comparata). La scelta di queste due oggetti di analisi nasce dalla rilevanza posta su queste due dimensioni dagli utenti dell’informativa economico finanziaria e dalla loro centralità negli schemi di external reporting suggeriti alle imprese. Relativamente allo studio sulle informazioni prospettiche vengono esaminate le principali regole che disciplinano la comunicazione dei rischi in alcuni paesi e si propone un modello per la valutazione della qualità della disclosure. Relativamente alla comunicazione del capitale intangibile, invece, si analizza la disclosure delle imprese quotate alla Borsa di Milano in relazione a quelle quotate al London Stock Exchange e all'Irish Stock Exchange

Trasparenza informativa e mercato finanziario

BOZZOLAN, SAVERIO
2005

Abstract

Il punto di partenza del nostro lavoro risiede nella considerazione che la comunicazione economico-finanziaria d’impresa assume una maggiore importanza quanto maggiori sono le asimmetrie informative tra soggetti interni, possessori di informazioni private, e soggetti esterni (investitori e stakeholder) che dispongono “solamente” di informazioni comunicate direttamente dall’impresa o elaborate da società specializzate. Il fenomeno delle asimmetrie informative è quindi qui ricondotto al conflitto di interessi, tipico della teoria dell’agenzia, esistente tra queste due categorie di soggetti e sorge nel momento in cui gli investitori non hanno un ruolo attivo nella gestione dell’impresa la cui responsabilità è delegata al management. Queste asimmetrie informative possono essere ridotte tramite differenti meccanismi. Una prima soluzione riguarda l’individuazione di contratti ottimali tra imprenditori ed investitori: questi contratti forniscono incentivi per una disclosure completa di informazioni private, mitigando in questo modo il problema della errata valutazione di una iniziativa imprenditoriale. Un’altra proposta risiede nella regolamentazione condotta da enti che disciplinano il funzionamento dei mercati finanziari e che determinano i principi e le regole del reporting istituzionale in merito al tipo ed alla quantità di informazioni che devono essere comunicate. I contratti e gli incentivi per una maggiore disclosure così come la regolamentazione della comunicazione per il mercato si sono però dimostrati non sufficienti ad annullare le asimmetrie informative ed a soddisfare la richiesta di informazioni che proviene dal mercato. Questi elementi aprono lo spazio per la comunicazione volontaria da parte dell’impresa: una impresa infatti comunica informazioni in eccesso rispetto a quelle previste dalla normativa perché queste ultime non sono sufficienti a soddisfare il fabbisogno di conoscenza degli investitori relativamente a strategie, leve di vantaggio competitivo e risultati ottenuti e preventivati. A queste determinanti della comunicazione volontaria riconducibili, in linea generale, all’inefficiente regolazione del mercato è possibile associarne altre riconducibili a differenti teorie (la agency theory, la signalling theory, legitimacy theory e la proprietary costs theory) che si pongono l’obiettivo di individuare le motivazioni che portano il management di un’azienda a condurre una maggiore o minore disclosure. Dopo aver spiegato il perché le imprese sono spinte a comunicare informazioni in eccesso rispetto a quelle richieste dalla normativa, ci si sofferma ad esaminare quali sono queste informazioni. A questo scopo si è utilizzata una duplice prospettiva di analisi che, portata a sintesi, ha permesso di individuare principi, contenuto e modalità di presentazione della comunicazione volontaria: la prospettiva normativa che nasce da argomentazioni logiche, cioè quello che gli utilizzatori dovrebbero conoscere, e la prospettiva prescrittiva che nasce dall’analisi empirica, cioè quello che gli utilizzatori vorrebbero conoscere. L’individuazione del contenuto della disclosure è quindi condotta facendo riferimento ad una serie di indagini empiriche sulle aspettative delle informazioni da parte di utenti esterni ed agli schemi di external reporting proposti da accademici, da organismi professionali, da enti che disciplinano il funzionamento dei mercati e da società di consulenza. In termini generali tutti questi schemi si caratterizzano per il fatto che richiedono alle imprese un numero maggiore di informazioni rispetto a quelle prescritte dalla normativa o rispetto alle guideline esistenti. Ciò che guida la predisposizione di questi schemi non è però il solo incremento della quantità dell’informazione comunicata ma anche la necessità di fornire ai soggetti esterni informazioni utili sulle quali essi possono fondare le decisioni di investimento. Uno studio sulla comunicazione volontaria non può, a nostro giudizio, prescindere dalla valutazione di quali sono gli effetti che le imprese si attendono dalla comunicazione delle informazioni al mercato. In questo lavoro, non si sostiene però la tesi che è necessario che le imprese offrano ai soggetti esterni la maggior disclosure possibile in quanto esistono, come evidenziato dal corpus teorico di studi sulla comunicazione esterna, sia benefici (riduzione del costo del capitale di rischio, riduzione del costo del capitale di debito, aumento della liquidità del titolo, correlazione maggiore del prezzo del titolo con le prospettive di risultato dell’impresa, a parità di prospettive economiche con altre aziende una quotazione maggiore perché l’impresa è percepita “meno rischiosa”, etc.) sia costi della disclosure (costi per produrre le informazioni, costi collegati al rischio di cause legali da parte di soggetti esterni, rischi di offrire informazioni che possono danneggiare la posizione competitiva dell’impresa, rischio di fornire informazioni che attirino un interesse non voluto sull’impresa, etc.). tità di informazioni che devono essere comunicate. I contratti e gli incentivi per una maggiore disclosure così come la regolamentazione della comunicazione per il mercato si sono però dimostrati non sufficienti ad annullare le asimmetrie informative ed a soddisfare la richiesta di informazioni che proviene dal mercato. Questi elementi aprono lo spazio per la comunicazione volontaria da parte dell’impresa: una impresa infatti comunica informazioni in eccesso rispetto a quelle previste dalla normativa perché queste ultime non sono sufficienti a soddisfare il fabbisogno di conoscenza degli investitori relativamente a strategie, leve di vantaggio competitivo e risultati ottenuti e preventivati. A queste determinanti della comunicazione volontaria riconducibili, in linea generale, all’inefficiente regolazione del mercato è possibile associarne altre riconducibili a differenti teorie (la agency theory, la signalling theory, legitimacy theory e la proprietary costs theory) che si pongono l’obiettivo di individuare le motivazioni che portano il management di un’azienda a condurre una maggiore o minore disclosure. Dopo aver spiegato il perché le imprese sono spinte a comunicare informazioni in eccesso rispetto a quelle richieste dalla normativa, ci si sofferma ad esaminare quali sono queste informazioni. A questo scopo si è utilizzata una duplice prospettiva di analisi che, portata a sintesi, ha permesso di individuare principi, contenuto e modalità di presentazione della comunicazione volontaria: la prospettiva normativa che nasce da argomentazioni logiche, cioè quello che gli utilizzatori dovrebbero conoscere, e la prospettiva prescrittiva che nasce dall’analisi empirica, cioè quello che gli utilizzatori vorrebbero conoscere. L’individuazione del contenuto della disclosure è quindi condotta facendo riferimento ad una serie di indagini empiriche sulle aspettative delle informazioni da parte di utenti esterni ed agli schemi di external reporting proposti da accademici, da organismi professionali, da enti che disciplinano il funzionamento dei mercati e da società di consulenza. In termini generali tutti questi schemi si caratterizzano per il fatto che richiedono alle imprese un numero maggiore di informazioni rispetto a quelle prescritte dalla normativa o rispetto alle guideline esistenti. Ciò che guida la predisposizione di questi schemi non è però il solo incremento della quantità dell’informazione comunicata ma anche la necessità di fornire ai soggetti esterni informazioni utili sulle quali essi possono fondare le decisioni di investimento. Uno studio sulla comunicazione volontaria non può, a nostro giudizio, prescindere dalla valutazione di quali sono gli effetti che le imprese si attendono dalla comunicazione delle informazioni al mercato. In questo lavoro, non si sostiene però la tesi che è necessario che le imprese offrano ai soggetti esterni la maggior disclosure possibile in quanto esistono, come evidenziato dal corpus teorico di studi sulla comunicazione esterna, sia benefici (riduzione del costo del capitale di rischio, riduzione del costo del capitale di debito, aumento della liquidità del titolo, correlazione maggiore del prezzo del titolo con le prospettive di risultato dell’impresa, a parità di prospettive economiche con altre aziende una quotazione maggiore perché l’impresa è percepita “meno rischiosa”, etc.) sia costi della disclosure (costi per produrre le informazioni, costi collegati al rischio di cause legali da parte di soggetti esterni, rischi di offrire informazioni che possono danneggiare la posizione competitiva dell’impresa, rischio di fornire informazioni che attirino un interesse non voluto sull’impresa, etc.). La nostra attenzione si focalizza quindi su un concetto proposto da molti studiosi: la finalità della comunicazione come costruzione di credibilità strategica e reddituale d’impresa che si manifesta nel momento in cui gli investitori vengono a valutare in modo positivo le linee strategiche di sviluppo dell’impresa. Costruire la credibilità strategica e reddituale significa creare nei soggetti esterni la consapevolezza che l’impresa si trova all’interno di un percorso virtuoso e viene gestita in modo da riuscire a far fronte alle difficoltà (ambientali, strategiche, competitive ed operative), a cogliere le opportunità che si aprono, a difendere i vantaggi competitivi sostenibili e ad avere le risorse per poterne sviluppare altri. Questo comporta che se l’impresa ha conseguito risultati positivi in passato tali risultati sono destinati a ripetersi in futuro o se, al contrario, ha conseguito risultati negativi questi possono essere attribuibili a fattori (interni o esterni non ha importanza) che sono stati identificati ed affrontati e gestiti oppure eliminati. Tramite questa credibilità, l’azienda è in grado di diffondere il valore del capitale economico nel mercato cioè attivare quel processo che trasferisce il valore realizzato grazie allo svolgimento della propria attività nella quotazione dei titoli. Se in relazione agli investitori la finalità della comunicazione economicofinanziaria è la costruzione della credibilità strategica e reddituale, si propone, per analogia, di estendere questo concetto ad altre categorie di stakeholder (non interessate in modo principale alla creazione di valore) facendo riferimento alla credibilità sociale ed ambientale Allo scopo di creare la credibilità sociale ed ambientale diviene necessario elaborare ed offrire ai soggetti esterni uno spettro più ampio di informazioni che coprano le aree in cui gli stakeholder vogliono essere informati e rispetto alle quali spesso esercitano pressioni nei confronti dell’impresa per ottenere un flusso di informazioni che permetta loro di verificare se tali aspettative sono state soddisfatte. La creazione della credibilità sociale ed ambientale è altrettanto importante per il successo imprenditoriale di lungo termine che è reso possibile dal soddisfacimento delle esigenze delle differenti e particolari categorie di stakeholder. Infatti, secondo una visione oramai diffusa, la capacità che un’impresa ha di ottenere il consenso delle varie categorie di stakeholder è un elemento che, sempre più spesso, viene posto alla base della capacità di creare valore. La credibilità strategico-reddituale e la credibilità socio-ambientale devono, oggi più che mai, essere però fondate sulla credibilità informativa (cioè l’informazione rilasciata al mercato deve essere credibile) per raggiungere la quale, viene sostenuto in questo lavoro, è necessario andare oltre ai requisiti informativi e regolamentari che disciplinano la diffusione delle informazioni nel mercato in modo da avvicinarsi a quelli che sono i reali fabbisogni informativi degli investitori e degli stakeholder. In sostanza è solamente tramite una disclosure volontaria “affidabile” sulle dimensioni ritenute rilevanti da parte degli investitori che è possibile creare aspettative relativamente alla sostenibilità dei processi di creazione di valore e far si gli stakeholder siano consapevoli che l’impresa sta agendo al meglio per tutelare i loro interessi. In questo modo è possibile creare consenso attorno allo svolgimento dell’attività d’impresa e sostenere, di conseguenza, tramite la comunicazione il processo di diffusione del valore nel mercato secondo una prospettiva temporale di lungo termine. Nella parte terminale del nostro lavoro vengono presentate due analisi empiriche sulla disclosure offerta dalle imprese italiane in relazione a due elementi che negli ultimi anni hanno catturato l’interesse di investitori, di manager e di studiosi: informazioni prospettiche – rischi ed il capitale intangibile (la ricerca sulla comunicazione del capitale intangibile ha anche una prospettiva internazionale in quanto la disclosure di imprese appartenenti in tre differenti paesi viene analizzata in chiave comparata). La scelta di queste due oggetti di analisi nasce dalla rilevanza posta su queste due dimensioni dagli utenti dell’informativa economico finanziaria e dalla loro centralità negli schemi di external reporting suggeriti alle imprese. Relativamente allo studio sulle informazioni prospettiche vengono esaminate le principali regole che disciplinano la comunicazione dei rischi in alcuni paesi e si propone un modello per la valutazione della qualità della disclosure. Relativamente alla comunicazione del capitale intangibile, invece, si analizza la disclosure delle imprese quotate alla Borsa di Milano in relazione a quelle quotate al London Stock Exchange e all'Irish Stock Exchange
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